Geografo, esploratore, mercante, scrittore del X secolo, fu autore del testo Kitāb al-masālik wa-l-mamālik, il Libro delle vie e dei reami dove descrisse il suo lungo peregrinare nei paesi dominati dai musulmani, un viaggio iniziato nel 943 da Baghdad. Era Ibn Ḥawqal-ابن حوقل, nato a Nusaybin – Νίσιβις in greco classico o Niṣībīn–نصيبين in arabo – città nella provincia di Mardin nel Kurdistan turco, al confine con l’attuale Iraq.


Si deve giocare con l’immaginazione per comprendere bene cosa avveniva a quei tempi lontani, come il Mondo fosse una realtà ancora misteriosa, tutta da scoprire, con continenti, penisole e isole cui bisognava dare una forma e una collocazione esatta.

L’anno Mille era ancora da raggiungere, le forze musulmane si erano spinte molto avanti inglobando la Spagna e la Sicilia. I velieri islamici, sia militari, che pirateschi o commerciali, solcavano infinite rotte nel Mediterraneo. Inevitabili le contrapposizioni con i regni cristiani che in questa fase storica dovevano contenere l’espansione musulmana.
La storia di Ibn Ḥawqal, insieme a quella di tanti altri letterati ed esploratori arabo-spagnoli-musulmani, è stata studiata e raccontata da Michele Amari, siciliano, studioso del 1800 specializzato nella storia isolana sotto i musulmani, personaggio definito dall’Enciclopedia Treccani come “Patriota, storico e arabista siciliano“: autore, tra le tante altre opere, di Storia dei Musulmani di Sicilia, 3 volumi, 1854-72, 2a edizione 1933-38; Biblioteca Arabo-Sicula, 1857-87, testi e traduzioni; Le epigrafi arabiche di Sicilia, 1875-85, in tre parti).
Fatto questo preambolo, vi faccio indossare per un istante i panni di quello che sarebbe diventato l’esploratore musulmano di oltre mille anni fa: come Ibn Ḥawqal avete vissuto la primissima parte della vostra vita a Baghdad e lo avete fatto in maniera invidiabile, tra tanti agi e possibilità di istruzione, quel che pochi possono permettersi. Sin dall’infanzia leggete libri su viaggi, sulle esplorazioni, scrutate i diari di viaggio e sulla vita di tribù, di culture lontane.

All’improvviso, le sorti economiche del nucleo familiare subiscono un contraccolpo negativo. Dovete darvi da fare.
Voi, al posto di Ibn Ḥawqal che fareste? Come gestireste la vostra vita durante questa emergenza?
Lui fece una scelta ben precisa, quella di viaggiare ed esplorare il mondo musulmano sfruttando la sua preparazione e sostentandosi con l’arte del commercio.
Un viaggio che durò circa trent’anni, moltissimo tempo, prima di tornare a Baghdad. L’esploratore-geografo racchiuse tutte le sue esperienze in racconti che composero la sua summa geografico-storica. Un’opera impostata sulla struttura di un celebre scritto, quello del famoso geografo persiano Abū Isḥāq Ibrāhīm ibn Muḥammad al-Fārisī al-Karkhī al-Iṣṭakhrī.
Però le narrazioni di Ibn Ḥawqal sono più vissute, basate anche sui rapporti e sui racconti di altri mercanti che avevano vissuto le realtà sociali, aggiungendo ai suoi resoconti alcune pennellate di umorismo e di descrizioni taglienti.
La Sicilia di Ibn Ḥawqal
Il viaggio di Muhammad Abū’l-Qāsim Ibn Ḥawqal (محمد أبو القاسم بن حوقل) iniziò intorno al 943 percorrendo rotte e cammini che lo portarono dall’Asia alla Penisola Iberica per circa tre decenni. La Sicilia che Ibn Ḥawqal ha poi raccontato è quella governata dalla Dinastia dei Kalbiti-Fatimidi al potere nell’Isola fino al 1040. Lui abitò per un lungo periodo a Palermo, nel corso dell’anno 973: una città cosmopolita, famosa in tutti i domini musulmani, dove coabitavano tranquillamente cristiani, ebrei, islamici senza disarmonia o vassallaggi religiosi.
Se all’inizio del dominio musulmano (IX secolo) ci furono persecuzioni nei confronti dei cristiani, appena dopo calò la pacificazione. Quindi, libertà di culto sì, ma gli appartenenti alle fedi non islamiche dovevano pagare la “gìzia”, un tributo annuo, in modo che la pace sociale potesse mantenere floridi il commercio, le arti, i mestieri e gli affari.
Da godersi, pur in un linguaggio arcaico, la descrizione fatta da Ibn Ḥawqal della Sicilia e, ancora di più, della grande capitale Palermo. Dalle parole dello scrittore traspare la sua ammirazione, ma non manca d’essere caustico nei confronti di alcune realtà umane-cittadine.

Della Sicilia. La più prosperosa, grazie all’Islam e alla sua popolazione, è la Sicilia: la più grande di tutte, la meglio approvvigionata, la meglio difesa, dalle forze degli emigranti del Maghreb che vi affluiscono.
Isola è questa lunga sette giornate [di cammino], larga quattro giornate; montuosa, irta di rocche e di castella, abitata e coltivata per ogni luogo.
Essa non ha altra città famosa e popolosa che quella che addimandan Palermo, ed è capitale dell’isola. Sta proprio sulla spiaggia, nella costiera settentrionale. Più grande di Al-Fusṭāṭ – الفسطاط (ndR: il nucleo urbano del X secolo che diventerà il Cairo, capitale d’Egitto), ma è ripartita in diversi settori; i fabbricati della città sono di pietra e calce ed essa appare rossa e bianca.
Palermo si compone di 5 quartieri, non molto lontani l’un dall’altro, ma sì ben circoscritti che i loro limiti appariscono chiaramente.
Il primo è la città grande propriamente detta Palermo, cinta ad un muro di pietra alto e difendevo ole, abitata da mercanti. Quivi la moschea Gâmi che fu un tempo chiesa dei Rûm (ndR: dei Romani/Bizantini). Nella quale c’è un gran santuario. Ho inteso dire da un certo logico che il filosofo de’ greci antichi, ossia Aristotile, giaccia entro [una cassa di] legno sospesa in cotesto santuario, che i musulmani hanno mutato in moschea. I cristiani onoravano assai la tomba di questo e soleano implorare da lui la pioggia, prestando fede alle tradizioni dei greci antichi intorno i suoi grandi pregi e le virtù.
Raccontava che questa cassa era stata sospesa lì a mezzaria, perché la gente ricorre a pregare per la pioggia, o per avere buona salute e contro quelle calamità che spingono a volgersi a Dio e propiziarlo; nei tempi di carestia, moria o guerra civile. Io vidi lassù una [cassa] grande di legno, e forse racchiudea l’avello.


L’altra città che ha nome Al Hâlisah (ndR: l’Eletta – nell’area della Kalsa) cingesi anch’essa da un muro di pietra, ma non tale che s’agguagli al primo. Soggiorna nella Hâlisah il Sultano co’ suoi seguaci: quivi non mercati, non fondachi; v’ha due bagni; una moschea gâmic, piccola, ma frequentata; la prigion del Sultano; l’arsenale della marina e il diwan (ndR: uffici pubblici). Ha quattro porte a mezzogiorno, tramontana e ponente: a Levante un muro senza porte.
Il quartiere detto Harat ‘as Saqâlibah (ndR: il Quartiere degli Schiavoni o degli Sclavi – corrispondente al rione Seralcadio, I Circoscrizione) è più ragguardevole e popoloso che le due città anzidette. in esso il porto; in esso parecchie fonti, le acque delle quali scorrono tra questo quartiere e la città vecchia: tra l’uno e l’altra il limite non è segnato se non le acque.
Il quartiere che s’appella Harat ‘al Masgid (il Quartier della Moschea) di quella, dico, d’’Ibn Siqlâb è spazioso anch’esso; ma difetta d’acque vive, onde gli abitatori bevon de’ pozzi.
A mezzogiorno del paese un grande e grosso fiume che si appella Wâdi ‘Abbâs (ndR: il fiume Oreto), sul quale son piantati di molti mulini; ma [l’acqua di esso] non si adopera all'[irrigazione degli]orti, né dei giardini.
Grosso è Al Harat ‘al gadîdah (il Quartier Nuovo) il quale s’avvicina al Quartier della Moschea, senza separazione, né intervallo: né anche ha mura il Quartier degli Schiavoni.


Gli acquartieramenti delle varie categorie di mestieri, di commercianti e le tantissime moschee
La più parte de’ mercati giace tra la moschea di Ibn Siqlâh e questo Quartier Nuovo: per esempio il mercato degli oliandoli (ndR: erano coloro che si occupavano di estrarre l’olio dalle olive), che racchiude tutte le botteghe de’ venditori di tal derrata. I cambiatori e i droghieri soggiornano anch’essi fuor le mura della città; e similmente i sarti, gli armaiuoli, i calderai, i venditori di grano e tutte quante le altre arti.
Ma i macellai tengono dentro la città meglio che cinquanta botteghe da vender carne; e qui [tra due quartieri testé nominati] non ve n’ha che poche altre. Questo mostra la importanza del loro traffico e il grande numero di coloro che lo esercitano. Il che puossi argomentare parimenti dalla vastità della loro moschea: nella quale, un dì ch’era zeppa di gente, io contai, così in aria, più di settemila persone; poiché verranno schierate per la preghiera più di trentasei file, ciascuna delle quali non passava il numero di duegento persone.
Le moschee della città, della Hâlisah e de’ quartieri che giacciono intorno la fuor le mura, passano il numero di trecento: la più parte fornite d’ogni cosa, con tetti mura e porte. Le persone ben informate del paese dan tutte a un modo così fatto ragguaglio e concordano nel numero.
Four la città, nello spazio che le s’attacca e la circonda, tra le torri e i giardini, sono dei mahâll (ndR: povere abitazioni), che seguonsi l’un l’altro assai da vicino; e da una parte [movendo] da’ pressi del luogo chiamato ‘Al Mu ‘askar (le stanze dei soldati), il quale giace nel bel mezzo dell’abitato, si volgono al fiume che si appella Wâdî ‘Abbâss e vanno a sparpagliarsi su le sue sponde; [da un’altra parte] seguitando l’uno all’altro, arrivano fino al luogo detto ‘Al Baydâ (Baida ancora oggi) sopra un’altura che sta ad una parasanga all’incirca dalla città.
Cotesti borghi furono già desolati, e gli abitatori di essi perirono nelle guerre civili che afflissero il paese, come qui noto a chiunque.
Pur tutti concordemente attestano la importanza di detti borghi e che le loro moschee passavano il numero di duegento. Io non ho visto tanto numero di moschee in nessuna delle maggiori città, foss’anco grande al doppio [di Palermo], né l’ho sentito raccontare se non che da quelli di Cordova; per la quale città io non ho verificato il fatto, anzi l’ho riferito a suo luogo non senza dubbio.
Lo posso affermare bensì per Palermo, perché ho veduta con gli occhi miei la più parte di esse [moschee].
Stando un giorno presso la casa di ‘Abu Muhammad ‘al Qafî, giureconsulto nella materia de’ contratti e messomi ha guardare dalla costui moschea, per quando si stendea la vista nel tratto che percorre una saetta (ndR: una freccia), io notai una decina di moschee, che talvolta l’una stava di faccia all’altra e correasi di mezzo solo una strada.
Avendo chiesto di questo, mi fu detto che qui la gente è sì gonfia di superbia, che ognun vuole una moschea sua propria, nella quale non entri che la sua famiglia e la sua clientela.
Accade qui che due fratelli, abitando case contigue, anzi addossate ad un stesso muro, si faccia ciascun di loro la sua moschea, per adattarvisi egli solo.
Una delle dieci, delle quali testé ho fatta menzione, apparteneva al medesimo ‘Abu Muhammad ‘al Qafî: ed eccoti da canto, ad una ventina di passi, un’altra moschea ch’egli aveva fabbricata, perché il suo figliuolo vi desse lezioni di giurisprudenza.
Insomma ognuno vuol che si dica: questa è la moschea del tale e di nissun altro.
Questo figliuolo di ‘Abu Muhammad ‘al Qafî si sentiva gran cosa: tra ch’egli aveva del suo tanti fumi in capo e ch’era il cucco del Babbo, egli andava sì gonfio e con viso contento di sé medesimo, come s’egli fosse stato il padre del proprio padre.
Giacciono sulla spiaggia del mare molti ribât ( ﺭﺑﺎﻁ, ricoveri-monasteri dove volontari militari/diffusori della Fede, fanatici dell’Islam trovavano riparo) pieni di sgherri, uomini di mal affare, gente da sedizioni, vecchi e giovani, ribaldi di tante favelle, i quali si son fatta in fronte la callosità delle prosternazioni per piantarsi lì a chiappare la limosina e sparlar delle donne oneste. La più parte son mezzani di lordure o rotti a vizio infame. Riparan costoro nei ribât, come uomini da nulla ch’è sono, gente senza tetto, canaglia.
La città antica, il cuore di Palermo e le sue porte d’ingresso
Ho letto della Hâlisah, delle sue porte e di quanto avvi lì. Venendo ora al Qasr, il cassaro, il castello, propriamente chiamato Palermo, dico ch’è questa la città antica.
Delle sue porte, la principale è la Bâb ‘al Bahr (Porta di Mare), così appellata perché vicina al mare.
Non lungi da quella un’altra porta elegante e nuova che Abû ‘al Hasan ‘Ahmad ‘ibn ‘al Hassan ‘ibn ‘abi ‘al Husayn fece costruire, a domanda de’ cittadini, in un ciglione che sovrasta al rivo ed dalla fonte detta ‘Ayn ‘as safâ (Fonte della Salute). Il medesimo nome ha preso in oggi la porta, la quale, al par della fonte, torna di comodo ai cittadini.
Segue la porta antica detta di Sant’Agata; e appresso a questa, l’altra che addimandasi Bâb ‘ar Rutah, dal nome di un grosso rivo, al quale si scende di qui. La scaturigine è proprio sotto la porta: l’acqua molto salubre e muove parecchi mulini l’un dopo l’altro.
Indi la Bâb ‘ar Riyâd (Porta de’ Giardini), nuova anche essa e fabbricata da ‘Abû ‘al Hasan.
Sorgea non lungi, in sito poco difendevole, un’altra porta, detta Bâb ‘ibn Qurhub; ma essendo stata la città un tempo combattuta da quella parte ed avendone sofferta una irruzione con danno gravissimo ‘Abu ‘al Hasan ha portato questo ingresso dal posto cattivo ad altro più sicuro.
Appresso è la Bâb ‘al ‘abnâ (Porta de’ Giovanotti), la più antica del paese; indi la Bâb ‘as sudân (Porta de’ Negri) la quale sta di faccia alla contrada de’ Fabbri; indi la Bâb ‘al hadîd (Porta di Ferro) donde esce all’Hârat ‘al yahûd (il Quartiere de’ Giudei).
Lì presso è un’altra porta edificata parimenti da ‘Abu ‘al Hasan; ma non ha nome di sorta. Fuor di questa è il quartiere di ‘Abu Himâz. e in tutto fa nove porte.
La città di figura bislunga, racchiude un mercato che l’attraversa da Ponente a Levante e sì addimanda ‘As simât [la fila]: tutto lastricato di pietra da un capo all’altro; bello Emporio di varie specie di mercanzie.
Scaturiscono intorno a Palermo acque abbondanti, che scorrono da Levante a ponente, con forza da volgere ciascuna due macine; onde son piantati parecchi mulini su que’ rivi. Dalla sorgente allo sbocco in mare sono essi fiancheggiati di vasti terreni paludosi, i quali dove [producono] canna persiana, dove fanno degli stagni, dove dan luogo a buone aie di zucche.
Quivi stendesi anco una fondura tutta coperta di b.rbîr, il papiro, ossia bardi, ch’è di cui si fabbricano i tûmâr, rotoli di foglio da scrivere. Io non so che il papiro d’Egitto abbia su la faccia della terra altro compagno che questo di Sicilia. Il quale la più parte è attorto in cordame per le navi e un pochino si adopera a far de’ fogli per Sultano, quanti gliene occorrono per l’appunto.
L’acqua bene prezioso e la cipolla, consumata moltissimo dal popolo, troppo, offuscatrice di menti, come sottolineato dal geografo-viaggiatore
Parte dei cittadini, quelli cioè che abitano presso le mura e ne’ dintorni, da Bâb ‘ar riâd a Bâb as safâ, bevon di questa ed altre fonti.
Gli altri al par che quelli della hâlisah e del rimanente de’ quartieri, dissetansi con l’acqua de’ pozzi delle proprie case; la quale, leggiera o grave che sia, loro piace più che molte acque dolci che scorrono in quei luoghi.
La gente del Mu caskar beve dalla fonte detta ‘Al Garbâl (il Crivello), che ha buon’acqua. Nel Mu caskar è un’altra sorgente che si chiama ‘Ain ‘at tisk (la Fonte delle nove donne) e dà men copia d’acqua che il Garbâl e che l’altra detta ‘Ain ‘abi Sa ‘id (La fonte di Abû Sa ‘îd), la quale prese il nome da uno de’ wâli del paese.
Nel lato occidentale si beve della fonte ‘Ain ‘al hadîd (la Fonte di Ferro). Quivi una miniera di questo metallo, posseduta in oggi dal Sultano; il quale adopera agli usi dell’armata. A tempo antico la miniera apparteneva ad un dei Banû ‘al ‘Aglab. Essa è vicina al villaggio di Balharâ, ricco di giardini, di vigneti e di polle e rivi che vanno a ingrossare il Wâdi ‘Abbâs.
Oltre a quelle scaturiscono intorno a Palermo altre fontane rinomate, le quali recano utilità al paese; come sarebbe il Qâdûs, e, nella campagna meridionale, la Fawârah piccola e la Grande; la quale sgorga dal naso della montagna, ed è la più grossa sorgente dell’agro palermitano. Servon tutte queste acque ai giardini.
‘Al Baydâ ha anche essa una bella fonte chiamata con lo stesso suo nome e vicina al Garbâl ed alla Garbîah (La Occidentale).
Gli abitanti del luogo detto Burg ‘al battâl (la Torre del valoroso) bevon dalla polla conosciuta sotto il nome di ‘Ayn ‘abî Malik. L’irrigazione de’ giardini si fa più comunemente per mezzo di canali; ché molti giardini v’ha, oltre i campi non irrigui, sì come in Siria e in altri paesi.
La pessima acqua di molti pozzi… e le cipolle che, forse, Ibn Ḥawqal detestava
Con tutto ciò nella più parte de’ quartieri e della città, l’acqua si trae da’ pozzi, ed è grave e malsana. Han preso a berne per difetto d’acqua viva, per poco uso a riflettere e pel gran mangiar che fanno di cipolle. E veramente cotesto cibo, di cui sono ghiotti e il prendon crudo, lor guasta i sensi.
Non v’ha tra loro uom di qualsivoglia condizione che non ne mangi ogni dì e non ne faccia mangiar mattina e sera in casa sua. Ecco ciò che ha offuscata la loro immaginativa; offesi i cervelli; perturbati i sensi; alterate le intelligenze; assopiti gli spiriti; annebbiati i volti; stemperata la costituzione sì fattamente che lor non avviene quasi mai di vedere direttamente le cose.
Ibn Ḥawqal sugli insegnanti: tanti ma approssimativi, poco capaci, dediti al loro mestiere solo per non fare le guerre sante e non combattere
Va messo anco nel novero che qui v’ha più di trecento maestri di scuola che educano i giovanetti.
A sentirli, essi sono nel paese gli uomini di Dio, sono alla gente più virtuosa e degna: non ostante che ognuno sappia la poca loro capacità e la loro leggerezza di cervello, sono adoperati come testimoni [ne’ contratti] e come depositarii.
Ma il vero è che costoro si buttano a quel mestiere per fuggir la guerra sacra e scansare ogni fazione militare. io ho composto un libro su questi, nel quale ho raccolte le notizie che li concernono.