La competizione elettorale per la Casa Bianca è finita, Joe Biden fa suoi 306 Grandi Elettori, gli stessi che Donald Trump aveva ottenuto nel 2016 contro Hillary Clinton. Il repubblicano si è fermato a 232 Grandi elettori. La sconfitta sembra aver avuto ripercussioni sia sull’espressività del presidente uscente, non da battaglia, ma più cupa, sia sul colore dei suoi capelli passati dal biondo tiziano-aranciato-paglierino (dipendeva dai momenti nel corso dei suoi quattro anni di mandato), al total grigio di oggi, una perdita di colore evidente già il 12 novembre per il Veteran’s Day quando si è presentato al cimitero degli eroi di Arlington, ma pure durante la conferenza stampa del 13 novembre. Donald adesso promette pure un ricorso in Corte Suprema… dove, in precedenza, si era già garantito una maggioranza con l’elezione di tre giudici a lui vicini

Ha perso, ma ancora non lo ammette e non lo ha fatto neppure durante la sua prima conferenza stampa del post voto: Trump ha parlato ai giornalisti che aveva preventivamente fatto avvertire come non sarebbero state ammesse domande. Ha tenuto a specificare che al vaccino Pfizer anti Sars-COV-2 ci si è giunti grazie a lui, vaccino che ad aprile sarà disponibile per tutti gli Stati uniti. Trump ha aggiunto che si vedrà presto chi sarà il nuovo presidente, lasciando intendere che lui stesso si reputa rieletto.
Ma come fa a continuare su questa linea gettando in grave imbarazzo anche sul suo Partito Repubblicano?

Non si tratta di rinunciare al vertice di un’azienda dopo una scalata ostile al patrimonio azionario. Qui si tratta di elezioni per la scelta del Capo di Stato e la gente ha deciso. Donald Trump deve smetterla e seguire quello che molti del suo staff, dei suoi legali, gli stanno consigliando: riconosci la vittoria di Joe Biden e falla finita (detto in parole povere).
Eppure, pur vincendo Biden, siamo ancora al blocco con Trump che continua a puntare i piedi contro l’evidenza, scrive e dice che le elezioni sono state truccate e promette altri ricorsi anche in Corte Suprema dove prima si era già garantito la maggioranza con l’elezione degli ultimi tre giudici appartenenti alla sua area. Ma gran parte dei ricorsi già fatti sono stati bocciati per inconsistenza e quello in Arizona l’ha ritirato lui stesso sotto consiglio pressante dei suoi stessi legali.

A curare questa disperata strategia legale “trumpiana” (ma dannosa per il Paese) è Rudy Giuliani, personale avvocato di Trump, nonostante la reputazione del legale sia stata compromessa dagli intrallazzi nell’Ucrainagate e, in ultimo, anche dalla scena (forse) sessualmente imbarazzante, se risultasse vera per come appare, del film Borat 2. In questa fase di ultimo attacco da leone con artigli parecchio spuntati, Giuliani è stato anche protagonista di un infelice esordio – come fatto rilevare anche dall’agenzia stampa Ansa – durante una conferenza stampa organizzata nel parcheggio di una ditta di giardinaggio accanto ad un sexy shop, un errore nella prenotazione della location. Sembra che il panico, l’urgenza, la povertà di argomenti e l’eccessiva ricchezza di meri proclami, giochino brutti scherzi.

Giuliani porta lo scontro sui voti e sul loro conteggio, ma anche su Dominion Voting Systems Corporation, la società che ha fornito il sistema di voto a oltre 30 Stati dell’Unione sottraendo, secondo Trump, centinaia di migliaia di preferenze a lui dirette. “É una società della sinistra radicale”, ha denunciato Giuliani facendo l’eco ai tweet del suo capo, rilanciando inoltre infondate teorie cospirative, aggiunge l’Ansa, quelle secondo cui Dominion è legata alla Fondazione Clinton, mentre Smartmatic, una delle aziende che produce le macchine per classificare i voti (per scansionare le schede cartacee nelle elezioni statunitensi), è controllata dal filantropo progressista George Soros. Ecco dove il castello complottista “trumpiano” vuole andare a parare. Sorge spontanea una domanda: fosse stata questa la situazione di partenza, lo si sapeva già ben prima delle elezioni.
In più, “I Board of County Canvassers (ndR: rappresentati dei partiti) composti da 2 Democratici e 2 Repubblicani, esaminano il nastro dei totali stampato da ciascun tabulatore durante il sondaggio per verificare che i totali dei voti riportati siano corretti“. Quindi il controllo è capillare durante le fasi di raccolta e conteggio dei voti, verificato anche dai rappresentati dei partiti in competizione.
Dominion Voting Systems ha negato reclami su mutazioni nella registrazione dei voti o su presunti problemi software con i suoi sistemi di voto. L’azienda ha verificato come l’ipotesi dell’eliminazione di 2,7 milioni di voti per il presidente Trump, di cui 941.000 in Pennsylvania, è “matematicamente impossibile“. Ha affermato che Dominion serve 14 contee in Pennsylvania che hanno prodotto 1,3 milioni di voti e il 52% di quei voti è andato al presidente Trump: “Calcolando questo, Dominion ha elaborato circa 676.000 voti per il presidente in Pennsylvania. Non ci sono mai stati 941.000 voti da cancellare“.
Secondo una dichiarazione congiunta dell’agenzia del governo federale che sovrintende alla sicurezza elettorale degli Stati Uniti, la Cybersecurity & Infrastructure Security Agency (CISA) del Department of Homeland Security, “Non ci sono prove che qualsiasi sistema di voto abbia cancellato o perso voti, cambiato in qualche modo compromesso”. Il governo e i consigli del settore privato che sostengono questa missione hanno definito le elezioni del 2020 “le più sicure nella storia americana “.
Infine, la Dominion Voting Systems Corporation sottolinea che “non ha rapporti di proprietà aziendale con alcun membro della famiglia Pelosi, della famiglia Feinstein o della Clinton Global Initiative, Smartmatic, Scytl o alcun legame con il Venezuela. Dominion lavora con tutti i partiti politici; la nostra base di clienti e le nostre pratiche di sensibilizzazione del governo riflettono questo approccio apartitico“. Come riportato dall’Associated Press, “Dominion ha preso un impegno filantropico una tantum a una riunione della Clinton Global Initiative nel 2014, ma la Fondazione Clinton non ha alcun interesse o coinvolgimento nelle operazioni di Dominion“: l’incontro includeva partecipanti bipartisan incentrati su costruzione della democrazia internazionale.
Dopo tutto questo, di quali brogli e di quali aziende “deviate” parlano Giuliani e Trump?
Problemi anche gravi negli uffici federali per lo stop alla transizione: continuando così avranno riflessi anche sull’inizio dell’amministrazione Biden
Intanto, le agenzie federali erano tenute per legge a prepararsi per una transizione già prima delle elezioni del 2020, ma la raffica di attività che normalmente avrebbe dovuto essere svolta durante una transizione presidenziale, oggi è sospesa per il rifiuto del presidente Donald Trump di accettare i risultati delle elezioni.
Comunque, alcuni uffici stanno agendo autonomamente per la transizione o stanno cercando di farlo senza che per adesso restino tracce scritte o ci siano consegne di report. Per esempio una divisione del Dipartimento dell’Energia sta discretamente iniziando a prepararsi per la prossima amministrazione Biden anche se non è stato stabilito alcun collegamento ufficiale.
Come riportato dalla CNN, i funzionari del Dipartimento di Stato sono sempre più ansiosi e frustrati poiché gli viene impedito di interagire con il team di transizione di Biden: “È frustrante da un lato, ma dall’altro è anche dannoso per il morale del dipartimento”, ha detto un funzionario in carica e al corrente dello stop stabilito dallo staff di Trump.

I preparativi che i diplomatici di carriera svolgono, come previsto dalla legge, sono già stati fatti. Gli uffici per le squadre di transizione – sia i funzionari di carriera del Dipartimento di Stato assegnati al lavoro di transizione dal dipartimento che la squadra del Dipartimento di Stato di Biden – sono rimasti vacanti. “Hanno fatto tutto quello che potevano fare. Ora aspettano”, ha detto una fonte che ha familiarità con il processo.
L’ultima fase dell’assegnazione dei singoli stati ai candidati
Venerdì 13 novembre 2020 sono stati assegnati gli ultimi stati ai candidati per la presidenza USA: Arizona (11 grandi elettori) e Georgia (16 grandi elettori) a Biden (link sito ufficiale) e il North Carolina (15 grandi elettori) a Trump (link sito ufficiale).

Lo Stato dell’Arizona è stato riconquistato dai Democratici (Biden maggioritario con uno scarto di circa 11.000 voti equivalenti al +0,3% sull’avversario) e lo stesso Trump ha fatto dietrofront col ricorso legale visto che, secondo secondo i suoi stessi avvocati, contare di nuovo i voti non avrebbe cambiato il risultato finale già a favore di Joe Biden.
In Michigan un giudice ha respinto la richiesta di bloccare la certificazione dei voti a Detroit.
Dal 13 novembre Joe Biden ha fatto suoi 306 Grandi Elettori su tutto il territorio degli Stati Uniti, gli stessi che Donald Trump aveva ottenuto nel 2016 contro la Democratica Hillary Clinton a fine del secondo mandato dell’allora presidente Barack Obama. Il destino e i percorsi della vita hanno fatto vivere al repubblicano il destino che quattro anni fa fu del primo presidente di colore statunitense.
Oggi Trump si è fermato a quota 232 Grandi Elettori e null’altro è possibile aggiungere.
Nulla può più cambiare questo risultato.
Le grandi lezioni del passato, dell’eleganza e correttezza di precedenti candidati ed ex presidenti USA
Lo stesso ex presidente Barack Obama ha più volte ricordato i primi giorni e i mesi successivi di passaggio dei poteri (1992/1993) quando vinse su George W. (Walker) Bush e come quest’ultimo lo accolse “durante la transizione presidenziale nonostante le scintille in campagna elettorale. Che sia per il suo rispetto per l’istituzione, per le lezioni di suo padre, per i brutti ricordi della sua stessa transizione o solo per la decenza di base, il presidente Bush fece tutto il possibile per far passare le undici settimane tra la mia elezione e il suo ritiro senza intoppi“.

Da ricordare la bellissima lettera (link per leggerne il testo in precedente articolo) che l’ex presidente repubblicano George Herbert Walker Bush (padre del precedentemente citato) lasciò all’allora neo presidente democratico Bill (William Jefferson) Clinton perché quest’ultimo la leggesse al suo ingresso nella Casa Bianca il 20 gennaio 1993. Una missiva che chiudeva così: “Quando leggerai questa mia nota tu sarai il nostro Presidente. Ti auguro il meglio. Auguro il meglio alla tua famiglia. Il tuo successo adesso è il successo del nostro Paese. Faccio il tifo per te. Buona fortuna. George“.
Dopo questo alto esempio dei Bush, “Decisi di fare lo stesso con Donald Trump al termine del mio mandato“, ha ricordato l’ex presidente Obama. E così fece.
I tempi però sono cambiati, lo stile è stato declassato tra le considerazioni minori, almeno secondo alcuni leader.

Trump non ammette ancora la sconfitta.
L’unica domanda da farsi è fino a quando potrà reggere questo gioco, a cosa potrà mai servire se non a tenere riaccesi gli animi e a coagulare simpatizzanti… ma a far cosa?
Sembra assurdo che queste sue mosse vogliano già preparare la marcia per le successive elezioni presidenziali del 2024.
Quindi, cosa ha intenzione di fare continuando con questa recita?
Intanto, Joe Biden, che ha vinto in 25 stati ai quali va aggiunto il District of Columbia, ha ricevuto e sta ricevendo le congratulazioni dei capi di stato del Mondo.
Non li ha ricevuti ancora dal presidente della Russia Vladimir Putin che sta recitando la parte del prudente attendendo l’ufficializzazione del risultato.
Nulla è giunto, neppure una parola, dal leader della corea del Nord, Kim Jong-un, che non ha mai avuto rapporti idilliaci con Trump.
In silenzio anche il presidente del Messico, Andres Manuel Lopez Obrador, nessun riconoscimento di Biden come presidente statunitense, eppure il leader messicano ha vissuto momenti molto difficili con Trump per la questione dei migranti messicani diretti in Nord America e sulla delocalizzazione delle case automobilistiche USA in Messico alla ricerca di manodopera a basso costo.
Tace pure il presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, notoriamente filo-Trump, anzi, soprannominato come il “Trump dei Tropici“, vedeva e aveva in Donald un forte fronte comune ultra conservatore nei continenti americani, ne condivideva la filosofia di non chiusura per scoraggiare i contagi da covid-19, come appoggiava lo sganciamento deciso da Trump dai trattati internazionali per la protezione ambientale e per la limitazione delle emissioni nocive in atmosfera.


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