Diluvio universale sì, ma sumero – L’epopea di Ghilgamesh

È una delle storie più antiche mai rinvenute e reca la prima versione letteraria del Diluvio universale. E con questo intendo riferirmi all’epopea di Ghilgamesh o Gilgamesh anche se la trascrizione originaria dovrebbe essere Gilgameš (𒄑𒂆𒈦) secondo l’idioma accadico babilonese-assiro o Bilgames (𒉈𒂵𒈩) in sumero.

La novella si riconduce alla protostoria di Uruk, antica cittadina della Mesopotamia, una delle prime città nella storia del mondo. D’epoca sumera, la saga ha avuto origine quasi 3.000 anni prima di Cristo.

Della versione primeva, poco è giunto fino ai nostri giorni, ma sono disponibili diverse, successive trascrizioni, tutte molto simili in quanto mantengono fedele lo scritto alla versione originale. Di queste, quella più completa è una trascrizione in dodici tavole (foto che vedrete più in basso) trovata nella biblioteca di Assurbanipal (669-627 prima di Cristo) dagli archeologi Rassam e Smith. Si tratta quindi di una trascrizione d’epoca assira.

Ghilgamesh doveva essere un regnante concretamente esistito nella città di Uruk, intorno al 2.750 prima di Cristo: grande condottiero, riportò diverse vittorie, così entrò nella leggenda come essere fatto per due terzi da essenza divina e per un terzo umana. Dotato di una forza incredibile, “Egli vedeva ogni cosa: gli abissi della Sapienza si spalancano dinanzi a lui, e mai si vide un uomo pari a lui in forza e bellezza”.

Così inizia l’Epopea di Gilgamesh suddivisa in dodici tavole. Da sottolineare che qui ne trascrivo parte di una versione che ha le sue varianti, anche se minime, tra quelle ritrovate e tradotte.

Nelle vicende dei primi capitoli, Ghilgamesh affronta vari pericoli e avventure affiancato da un’altra figura fantastica, all’inizio mandata per affrontarlo, poi divenuto suo intimissimo amico fraterno, forse anche di più: è Enkidu. Ma alla fine di un’impresa eroica lo stesso Enkidu muore e Ghilgamesh si dispera, piange, urla, vuole conoscere il mistero della vita eterna, dell’immortalità in modo da appropriarsene e sconfiggere la morte.

Fra varie peripezie riesce a incontrare l’unico uomo divenuto immortale, Utnapishtim, per farsi raccontare come e perché vivrà in eterno. E qui che nello scritto entra in campo il Diluvio universale. Enki, Shiamash, Ishtar, Bal e altri, sono nomi di dei appartenenti al Pantheon mesopotamico e presenti in tutto il poema.

Tavola X


«Lascia da parte i lamenti e l’ira – risponde Utnapishtim – diversa è la sorte degli dei da quella degli uomini. Tuo padre e tua madre ti crearono uomo; anche se la tua natura è per due terzi divina, il terzo di te che è uomo ti spinge verso il Fato degli uomini. La morte pone un termine ad ogni vita. Sono forse eterne le case, i patti, le eredità dei padri? (…) Sin dall’inizio dei giorni è stabilito che ogni cosa abbia termine: il neonato e il morto non si assomigliano forse? Non recano entrambi i segni della morte? (…) Gli dei stabiliscono i giorni della vita, ma non contano quelli della morte!».

Tavola XI (inizia a parlare Ghilgamesh, poi gli risponde subito Utnapishtim)


«Io ti guardo Utnapishtim; tu non sei più grande né più alto di me e mi somigli come un padre a un figlio. Anche tu sei un uomo! Ma io non ho pace, venni creato per lottare, tu invece sei riuscito a sottrarti alla lotta e quietamente riposi. Dimmi, dunque, come hai potuto entrare nell’Assemblea del dei e trovare la vita?»

«Io voglio svelarti, o Ghilgamesh, una storia nascosta, un segreto degli dei. Sciuruppak è una città antichissima e per lungo tempo gli dei le furono benigni; ma, poi, essi decisero di far scendere sulla terra un diluvio. Nel Consiglio degli dei era presente anche Ea (Enki), il dio dell’Abisso ed egli confidò alla mia casa, fatta di canne, questa sentenza degli dei». E narra come Enki lo abbia esortato ad abbandonare i suoi beni, a salvare la vita e a costruirsi una capace nave sulla quale caricare i semi della vita d’ogni specie. «Costruisci la nave subito, portala nel mare delle acque dolci e provvedila di tutto».

«Io preparai legname e pece, disegnai il piano della nave e lo tracciai con acconci segni. Tutta la mia gente contribuì alla costruzione».

Quando la nave fu pronta «vi caricai tutto ciò che possedevo argento, oro e semi di vita do ogni sorta; vi feci salire tutta la mia famiglia; vi stivai il bestiame grosso e minuto; ordinai, infine, che vi prendessero posto gli artigiani versati nelle diverse arti».

«Gli spiriti delle tenebre riversarono poi sulla terra una pioggia torrenziale; io guardai la tempesta, spaventevole a vedersi. Quando spuntò l’alba, si alzò una nuvolaglia nera come un corvo; gli spiriti del male erano scatenati ed ogni luce si trasformò nel buio più fitto; soffiava impetuoso il vento del meridione, le acque gorgogliando raggiunsero i monti rovesciandosi sugli uomini. Il fratello non riconosceva più il fratello; gli stessi dei ebbero paura dell’uragano e corsero a rifugiarsi sulla Montagna Celeste di Anu, rannicchiandosi come cani spaventati. Ishtar, come presa dalle doglie, urlava; “Il bel Paese si è mutato in fango per il mio cattivo consiglio; come ho potuto suggerire una simile malvagità? Come ho potuto pensare di sterminare la mia gente? Ecco che ora la corrente trascina gli uomini come nel furore della battaglia (…)”».

«Tutti gli uomini erano diventati fango, la terra era uniforme e deserta. Aprii la finestrella della nave e la luce illuminò il mio volto; mi prosternai, poi mi sedetti e piansi con lacrime copiose; guardai quel vasto deserto d’acqua, urlai che tutti gli uomini erano morti. Dopo dodici ore doppie vidi profilarsi all’orizzonte un’isola; la mia nave era sospinta verso il monte Nissir. Essa si arenò e rimase ferma sul monte Nissir per sei giorni; al settimo presi una colomba e la lasciai partire, ma essa ritornò non avendo trovato alcun luogo dove posarsi. Quindi liberai una rondine ma anch’essa tornò. Presi un corvo e lo lasciai partire; esso volò via, vide le acque che stavano scemando, mangiò, grattò la terra e non ritornò. Allora lasciai che tutti gli animali uscissero e sacrificai un agnello; sparsi alcuni grani sacrificali sulla cima del monte e bruciai qualche ramo di cedro e di mirto. Gli dei ne aspirarono il profumo che riempiva di piacere le loro narici e si raccolsero intorno al rogo come tante mosche».

Gli dei rimproverano a Bel di avere suscitato tutto quel putiferio; se voleva punire gli uomini per qualche offesa arrecatagli, poteva sguinzagliare sulla terra alcuni feroci leoni, o mostri, o provocare una carestia, ma non distruggere l’umanità intera. Bel, però, non è per nulla pentito, anzi è seccatissimo nel vedere la nave: «Chi è mai questo mortale che è riuscito a sfuggire al suo destino? Nessuno deve sopravvivere al mio giudizio».

Ma Enki sale sulla nave e rivolge a Utnapishtim le seguenti parole; «Finora, o Utnapishtim, eri un uomo mortale; da questo momento in poi tu e la tua donna sarete simili a noi e abiterete lontano presso il mare nel quale sfociano i fiumi».

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4 commenti Aggiungi il tuo

  1. Alessandro Gianesini ha detto:

    Se non erro il diluvio universale è presente anche in altre mitologie, sia in estremo oriente, sia nelle americhe (ho appena verificato: anche in molte altre!)

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    1. Giuseppe Grifeo ha detto:

      Certo che sì. La forma sumero-mesopotamica è quella più antica, raccontata nei documenti più antichi

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  2. Francesca ha detto:

    Molto bello ed interessante come tutti i tuoi articoli. Sono molto incuriosita dalla civiltà degli Ittiti, sicuramente nella tua infinita cultura e perizia potrai deliziarci 🙂

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    1. Giuseppe Grifeo ha detto:

      Vedrai, anche sulle storie del Regno ittita c’è tanto da scrivere. Tra eventi reali e leggende

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