Una qualsiasi giornata al Tribunale di Roma, piazzale Clodio: lì il tempo si è fermato mentre la decadenza avanza

Era il 17 luglio del 2019. Premetto che da allora nulla è cambiato, semmai peggiorato dall’era Covid. Un’atmosfera che avevo già osservato da innumerevoli anni. Mi trovavo lì perché chiamato come teste in un processo difficile. Prima di me era stato convocato un caro amico: entrambi disponibili fino in fondo a raccontare la realtà di un fatto increscioso. Purtroppo, dopo anni dall’inizio del procedimento, ormai aleggiava il fantasma della prescrizione, della chiusura del processo senza sentenza. L’imputato l’avrebbe scampata. Così poi sarebbe stato.

Riporto di seguito il testo che mi venne fuori di getto mentre perlustravo corridoi, sale, scale, aule. Convocato dal giudice per una certa ora, avrei potuto testimoniare solo tre ore dopo. Tempi normali per una Giustizia che è sì bendata, ma anche impantanata mani e piedi: reggere la bilancia dell’equo giudizio diventa quasi disperato in queste condizioni.

Una qualsiasi giornata al Tribunale di Roma impantanato nel grigiore

Piazzale Clodio, aule processi penali. Tempo cristallizzato. Tutto è come sempre. Sono passato qui diverse volte come testimone e un paio di volte come accusato per quanto avevo scritto in due miei articoli (sono stato sempre assolto, la prima volta persino all’inizio della prima seduta del processo).

Gli edifici del complesso giudiziario, risalenti al 1968, non sono a norma, come fu ribadito intorno alla notizia del 16 maggio 2019 anche da Alfonso Bonafede, all’epoca ministro della Giustizia, in occasione della firma apposta al Protocollo d’intesa per il rinnovamento, la ristrutturazione e l’ampliamento (nel Parco di Monte Mario, area verde vincolata) della sede giudiziaria.

Come in occasioni precedenti, osservai nelle aule fascicoli a montagne sui tavoli dei pubblici ministeri, su quelli dei giudici.

Disordine.

Carte che non si trovano, perizie che ci sono e non ci sono, deposizioni mancanti e tantissimo altro. In compenso la sorpresa: impilati ci sono cartoni di fotocopiatrici e stampanti. Qualcosa di nuovo è arrivato, ma hanno installato i dispositivi (dove?) e hanno lasciato lì gli imballaggi per usarli come tavolini o cosa?

Due terzi dei punti luce non funzionano, neon spenti o prossimi a morire in un’agonia lenta di luce giallo-rossastra-fu bianca.

Un cartello intima di presentarsi in aula in abbigliamento degno e consono al luogo di Giustizia, ma abbondano pantaloncini, bermuda, magliette e canottiere. Nessuno ci bada più. L’urgenza è portare avanti pratiche e procedimenti.

Lo sporco a “batuffoli” fa capolino dalle grate delle luci, pronto a cadere sulle teste di avvocati, testimoni, imputati, poliziotti, carabinieri. Affissioni in cartone con scritte a pennarello per indicare servizi accessori nel palazzo, compresi quelli fai-da-te.

Marmi che sembrano lucidi, ma salire su quelle scale che connettono i diversi piani significa immergersi in un’aria che puzza di sudato vecchio… anche se intorno non c’è nessuno. In qualche modo e per chissà quale processo chimico-osmotico (avrò usato il termine giusto per trovare una spiegazione al fenomeno?) le mura e i gradini devono aver assorbito le emanazioni di quelle vite agitate e traspiranti che la cieca Giustizia ha pesato ogni giorno sulla sua bilancia: Giustizia che deve aver perso anche l’olfatto.

Comunque, nell’aula dove ero andato a presentarmi come testimone, funzionava l’aria condizionata, un ambiente da polo Nord soffiato con forza sulla testa, una piccola isola di gelido benessere (se non avessi dovuto aspettare il mio turno per quasi tre ore), un palco-teatro dei tanti verdetti, sospensioni, rinvii decisi minuto per minuto.

Ma una giustizia che somiglia più a una frettolosa e disordinata catena di montaggio, brutta copia di quella alla Charlie Chaplin, sommersa da cause, confusa, affollata, riesce a capire e a decidere in maniera corretta?

So per certo che non è così, il giudizio può essere offuscato. A volte sbaglia e non di poco. L’ho notato in alcune vicende che sono state al centro del mio lavoro da giornalista.

Tornando a quel 17 luglio 2019, ho potuto assistere a tutte le cause che si sono succedute in quasi 180 minuti e, come tanti, ho ascoltato i cavoli di altri.

Procedimenti per spaccio di stupefacenti, un uomo accusato di aver riciclato un assegno rubato, un presunto scassinatore, imputati portati in manette, avvocati “scomparsi” sostituiti da altri d’ufficio (molti sono lì in attesa per riempire buchi lasciati aperti da loro colleghi) e tanta altra roba.

Come dire che la privacy degli accusati, dei testimoni, le storie raccontate, le reazioni, i visi, sono tutti alla mercé di chiunque entri in quelle aule.

Alla fine, inizia l’ultimo processo – cosa non prevista in mattinata… che andasse così per le lunghe – ed è quello che mi riguarda in veste di testimone. L’aula-ghiacciaia ormai è praticamente vuota, come il resto dell’edificio: la gente è andata a mangiare e, probabilmente, sarà pure in fase digestiva.

Ho tirato un sospiro di sollievo nonostante la lunga attesa. Avevo fortemente temuto che rimandassero l’udienza di qualche mese (già accaduto in precedenza).

Giudice e legali d’appoggio, il cancelliere, stanno al di là di un lungo tavolo in pseudo legno modello-brutta imitazione Ikea o in stile banco extralungo per professori da scuola media.

A riportare un po’ di vita nell’imperante bianco ospedaliero delle mura e tra i tristi banchi ultra economici coperti da montagne di fascicoli con copertina rosa, borse, giacche abbandonate da chi lavora (come se si fosse in uno spogliatoio di palestra), microfoni malfunzionanti, ecco la striscia orizzontale delle finestre multicolori. Un momento di brivido cromatico e vitale.

Su tutti, alle spalle del magistrato giudicante, campeggia la scritta «LA LEGGE E’ UGUALE PER TUTTI». Questa targa orizzontale è un elemento tra i pochi ancora tenuti puliti. Peccato per quella «E’» apostrofata, non una novità nel suo essere scorretta, la si vede spesso in altri luoghi e in molti scritti. Ma in un tribunale avrei voluto vedere una «È» con l’accento. Ma questo, forse, è il punto meno grave?

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