Era il 15 luglio 1799 quando, durante la campagna napoleonica in Egitto, il Capitano francese Pierre-François Bouchard scoprì quella che venne chiamata come Stele di Rosetta. In quel momento non era prevedibile, ma si trovavano all’inizio dell’avventura che avrebbe portato alla capacità di comprendere i geroglifici. Questa pietra scolpita fu strumento vitale per la comprensione degli antichi testi egizi: anni dopo, il francese Jean-François Champollion studiò il testo della stele che era suddiviso in tre registri, in Geroglifico, in Demotico e in Greco. Il reperto suscitò le giuste intuizioni che portarono lo studioso a decifrare e a capire il meccanismo dell’antica lingua scritta del Nilo.




Premetto che, oltre a queste prime immagini, per facilitare la comprensione dei concetti ho qui inserito alcune riproduzioni fotografiche dal volume L’Egitto dei Faraoni-Storia, civiltà, cultura, di Federico A. Arborio Mella, Mursia editore, ristampa del 1995 (ma ho la prima versione che acquistai da bambino nel 1975).

Innanzitutto, perché Stele di Rosetta?
Il nome fu ispirato a quello della località del ritrovamento, oggi il villaggio di Rashīd, a circa 50 chilometri a oriente di Alessandria d’Egitto.
Questa pietra, una granodiorite (tipologia più scura di granito), incisa e modellata, riporta il testo in tre differenti trascrizioni, modalità tipica dell’epoca Tolemaica affinché gli editti fossero letti da una platea più numerosa possibile.
Come quando, molti secoli dopo, gli editti del Regno di Sicilia furono scritti in Latino, Greco e Arabo.
Nel Paese del Nilo dominava la famiglia macedone dei Tolomeo i cui esponenti divennero faraoni dalla frammentazione dell’impero di Alessandro Magno in più regni posti sotto il comando dei suoi più grandi condottieri.
In particolare questa stele riguarda un decreto che risale al 196 a.C. ed è in onore del tredicenne faraone Tolomeo V Epifane per il suo primo anniversario come regnante.
L’attuale reperto è alto 1,14 metri nel suo punto a sviluppo verticale maggiore, largo 72 centimetri, spesso 27 centimetri. Pesa circa 760 chilogrammi.
Il blocco originario era però ben più grande e, purtroppo, nella parte ritrovata manca gran parte del registro in geroglifici.
Tre registri, tre scritture diverse, oltre al Geroglifico e al Greco, il Demotico, che potrei definire come uno snellimento rappresentativo dei geroglifici e dello Ieratico che era la prima semplificazione dei tradizionali simboli egizi, destinato a una scrittura più rapida e più leggibile al popolo come lo era il Demotico.



Nel blocco oggi sono visibili solo 14 righe in geroglifico e non sono visibili neppure integralmente: sono quelle più in alto nello sviluppo verticale della stele e sono le più monche, mancanti di larghe parti.
Nel registro subito sotto è inciso il testo in Demotico, meno danneggiato, in tutto 32 linee, solo le prime 14 sono leggermente danneggiate e mancanti dal lato destro.
Il registro più basso è quello in Greco. Si sviluppa su 54 linee, solo le prime 27 sono integre.
Le altre sono parzialmente presenti per una rottura diagonale nella parte bassa a destra della stele.
Il testo è lo stesso in tutti e tre i registri, quindi l’attento studio e il raffronto fatto da Jean-François Champollion nel 1822 permise di ritrovare il bandolo della matassa e iniziare a leggere e a comprendere l’antica lingua dei faraoni.

Questo padre dell’Egittologia era stato preceduto in una intuizione dello studioso britannico Thomas Young: in breve, il nome del faraone Tolomeo V Epifane trascritto in geroglifico all’interno dei cartigli, sorta di ellissi. Young, pur comprendendo la scrittura in Demotico, non andò così nel profondo articolando lo studio dei geroglifici come invece seppe fare Champollion.
Tra i due studiosi scoppiò un inevitabile attrito su chi avesse favorito chi e su chi fosse il vero padre delle traduzioni o dei possibili metodi di comprensione, ma questa è un’altra storia che negli anni si sfumò da sola non rimanendo nella trappola degli attriti tra Francia e Inghilterra.
La stele è conservata al British Museum di Londra cui fu donata da Re Giorgio III nel 1802 dopo la sconfitta dell’armata di Napoleone in Egitto avvenuta nel 1801.
L’intuizione definitiva di Champollion, grazie alla Stele di Rosetta e ad altri reperti
Premetto che per facilitare la comprensione dei concetti, qui ho inserito immagini e scatti dal volume L’Egitto dei Faraoni-Storia, civiltà, cultura, di Federico A. Arborio Mella, Mursia editore, ristampa del 1995 (ma ho la prima versione che da bambino acquistai nel 1975).
Come intuì Champollion, i nomi di Tolomeo V e della moglie Cleopatra I dovevano essere stati scritti nello stesso modo in cui si pronunciavano. Inoltre, sospettò che i geroglifici riportavano nell’epoca tolemaica simboli fonetici e simboli ideografici.
Ad aiutare ulteriormente lo studioso francese furono altri due ritrovamenti del 1815 nell’Isola di File, due piccoli obelischi, entrambi con testo doppio Greco-Geroglifico dove compariva il nome di un altro Faraone, Tolomeo (Evergete II) insieme al nome della moglie, la regina Cleopatra III (che non è la ben nota Cleopatra coeva di Cesare, Antonio e Augusto, nella storia ben più tarda, la VII col suo nome).
Tutti questi sovrani, dalla Stele di Rosetta ai due piccoli obelischi, non sono nomi egiziani, ma macedoni, non indicabili con ideogrammi o simboli come avveniva per nomi egiziani classici. Dovevano essere stati scritti così come si pronunciavano.
Ptolemaios e Cleopatra nelle due scritture dovevano avere in comune i simboli per le lettere P, T, O, L, A.
Qui in basso i due cartigli in Geroglifico con i nomi dei due regnanti:



Vi anticipo che il cartiglio di Cleopatra è il secondo, quello che in ultimo, accanto alla seconda aquila, reca il simbolo dell’uovo (desinenza “t“), un suffisso che nell’antico egiziano viene aggiunto ai nomi di coloro che erano donne.
L’ipotesi di Champollion si dimostrò corretta, quei simboli erano caratteri dell’alfabeto egizio, anche se devo sottolineare che non era proprio comune per l’antico egizio avere un alfabeto: quella lingua scritta si articolava anticamente in bruppi bisonsonantici, triconsonantici, simboli-ideogrammi che racchiudevano concetti base che, se riuniti in precise forme, si sviluppavano in concetti più articolati. L’avvento di simboli alfabetici fu successivo e necessario durante l’epoca tolemaica.
Ricostruire la vocalizzazione dell’antica lingua egizia: vocali quasi sconosciute nei testi scritti come per le lingue semitiche antiche e moderne
Premetto che non voglio essere scientifico ed analitico. Non è questo lo spazio giusto. Però estraggo giornalisticamente il succo dei concetti per cercare di farli comprendere.
Considerazione cruciale sulla lingua egizia scritta: come per altre lingue da quest’area geografica fino a quella mesopotamica, quindi per le lingue semitiche antiche fino alle moderne, l’Egizio non riportava le vocali, se non in rari casi.
Uno schema che è stato trasmesso nel corso dei millenni anche alla lingua ebraica e a quella musulmana.
Quest’ultima oggi comprende solo tre suoni vocalici, A, I, U che si associano a 28 consonanti, ad alcuni simboli grafici e alla lettera hamza (أ) di particolare utilizzo insieme all’alif (prima lettera dell’alfabeto arabo) per indicare il colpo di glottide o pausa glottidale che ha origine nella lettera aleph fenicia-aramaica.
Semplifico per farvi capire.
È come se in Italiano scrivessimo Poesia con le sole vocali, quindi Ps: per archeologi che ci studieranno tra 2.000 anni sarebbe difficile risalire all’esatta nostra pronuncia senza poter avere un raffronto di questo vocabolo nelle lingue a noi coeve.
Somiglia a una continua caccia al tesoro vocalizzante.
E Cane? Secondo l’o’antico schema egizio noi dovremmo scriverlo cn. Come farebbero archeologi del futuro a distinguere cane da cina? Aiuterebbe il contesto della frase, ma quali vocali userebbero per cane e cina senza raffrontare il testo con un omologo scritto Francese, Inglese o Tedesco?
Questa mancanza di vocali negli scritti dell’Antico Egitto ha fatto sì che in epoca moderna, in mancanza di testi di raffronto in lingue conosciute, fossero adottate vocali standard a livello internazionale per la pronuncia di diversi vocaboli, verbi, nomi e quant’altro, quelli non trovati in testi di altre civiltà e in editti plurilingue.
In epoca tolemaica esisteva un alfabeto, vocali comprese, con l’aquila per “A”, il pulcino di quaglia “W” o “U”, il fiore di giunco come “i”.
Il Copto ha molte affinità con l’Antico Egizio d’epoca tarda, quindi aiuta a darci un’idea della pronuncia di molte espressioni e vocaboli.
Anche l’archivio di Amarna, l’antica capitale del Faraone AmenofiIV-Akhenaton, con le sue lettere, ha aiutato a intuire molte delle pronunce essendo testi redatti in Accadico, utili a un raffronto.
Poi ci sono eredità linguistiche giunte fino a noi. Un esempio: l’espressione greca antica Isis-doron, dono di Iside, è la base del nome Isidoro.
Però, nei fatti, la vocalizzazione dell’epoca è in buona parte sconosciuta, pur comprendendo noi oggi l’esatta corrispondenza dei gruppi di consonanti con concetti, nomi, oggetti, azioni ecc.
Twt ˁnkh Jmn è la trascrizione esatta di Tutankhamon, dove W è pronunciato U, ad ˁnkh corrisponde la pronuncia convenzionale ANKH (vita) e Jmn è vocalizzato come Amon in quanto è il nome del sommo dio tebano.
Il vocabolo Uomo dall’antico egizio trascritto in rm(t) ci è giunto nella sua pronuncia sia dal copto rwme che da Erodoto nella definizione di nobile uomo egizio πίρωμις.
Se fosse possibile un viaggio nel tempo, giunti sulle rive del Nilo al tempo del giovane faraone della XVIII Dinastia Tutankhamon, potremmo accorgerci che molte parole hanno vocali del tutto diverse rispetto a quelle da noi utilizzate secondo le convenzioni tradizionali dell’Egittologia.
Un lecito dubbio.
Da quale lato si legge l’egizio? Da sinistra o da destra?
Nulla di complicato, almeno non su questo punto.
Tutte i simboli come uccelli, animali, figure umane e divine, sono rivolti sempre verso l’inizio della frase.
Tenendo conto di questo punto, saprete sempre da dove inizia un testo che sia su papiro o inciso su pietra, dipinto-affrescato sulle pareti di una sepoltura, di vasellame o disegnato su papiri e altro materiale/supporto.
Nelle suddivisioni verticali dei testi, il verso di lettura è sempre dall’alto al basso… ma da quale colonna iniziare? Quella di destra o quella di sinistra?
Vale la stessa regola di prima: le figure guardano verso l’inizio, quindi verso la prima colonna del testo.
Semplice.
