Dal titolo di questo pezzo ciò che metto in campo è di una complessità enorme. Se ci fossero risposte e soluzioni, queste risolverebbero la vita di tutti, compresa una povera dottoressa medico anestesista che, di volta in volta, preconizza la morte dei vaccinati Covid (adesso il termine ultimo del nostro defungere è stato spostato a un generico 2023…). È una “professionista” iscritta all’ordine dei medici di un’importante e storica città del nord. Ma non voglio andare fuori dal seminato. Quella che qui voglio narrare è un’altra storia e nulla ha a che fare con quell’infezione e con quei folli teorizzatori che, anche loro, rientrano (purtroppo) in uno dei modi di essere umani.
Qui parlo di natura umana, delle maschere sociali, delle metamorfosi interiori, dell’omologazione sociale. Cosa si cela dietro due occhi. Cos’è l’uomo.
Mi ha fatto pensare e mi ha divertito uno scritto di Franz Kafka per l’insita psicologia inversa.
Chi non conosce – o non fino in fondo – l’opera dello scrittore boemo a cavallo tra XIX e XX secolo, autore del Die Verwandlung – La metamorfosi e di molte altre opere, qui avrà modo di capire.
Lo comprenderà grazie a questo racconto che ho scelto proprio per la prospettiva inversa, lo sguardo non umano che analizza noi umani, l’analisi di quell’essere che per scamparla, per uscire dalla gabbia in cui era rinchiuso – non per quella che considera l’ingannevole libertà, ma per sopravvivere – ha imitato lo strano e semplice essere umano…
La pubblicazione del racconto avvenne nel 1917, lo stesso anno in cui lo psicologo Wolfgang Köhler presentò i primi risultati delle sue ricerche sull’intelligenza delle grandi scimmie.
Immaginatevi solo lo scenario del racconto, un simposio scientifico, tanta gente intorno. Qui il protagonista inizia a illustrare, spesso con ironia, la sua avventura, la sua trasformazione passata poi anche una scelta esistenziale fondamentale, quella che al suo arrivo in Europa gli parava davanti due strade, due possibilità.

Una Relazione per un’Accademia – Ein Bericht für eine Akademie
Illustrissimi signori accademici!
Grande è l’onore che mi fate con l’invitarmi a presentare alla vostra accademia una relazione sulla mia antica esistenza di scimmia.
Non posso però, purtroppo, accogliere il vostro invito in tutta la sua portata. Quasi cinque anni mi dividono dallo stato scimmiesco: un periodo che forse, misurato sul calendario, appare breve, ma che è infinitamente lungo se, come me, lo si è percorso al galoppo, accompagnato a intervalli da simpaticissimi uomini, da consigli, applausi e musica di orchestre, ma, tutto sommato, in solitudine: poiché ogni accompagnamento si teneva, tanto per restare nell’immagine, lontano dalla barriera.
Non avrei mai potuto ottenere questo risultato, se non mi fossi ostinatamente aggrappato alla mia origine e ai ricordi di gioventù. La prima massima che mi sono proposto è stata infatti di rinuncia ad ogni ostinazione: libera scimmia, mi sono chinato a questo giogo; ma proprio perciò mi sono sempre più precluso il mondo dei ricordi. Se prima – qualora gli uomini me l’avessero consentito – sarei potuto liberamente ripassare per la grande porta che il cielo disegna sopra la terra, man mano che il mio sviluppo procedeva a suon di frusta, quella porta si abbassava e si restringeva sempre più; mi sentivo più a mio agio, più inserito nel mondo degli uomini; l’uragano che dal passato muggiva alle mie spalle, si andava calmando: oggi non è più che un venticello che mi pizzica i garretti, e il baratro lontano da cui proviene (e da cui io stesso provenni) è diventato un buco talmente piccolo che, ammesso pure di aver forza e voglia di arrivare fin là, mi scorticherei tutto se lo volessi attraversare.
Detto a chiare note – sebbene, per certi argomenti, io preferisca avvalermi d’immagini – detto a chiare note, signori, il vostro stadio scimmiesco, postoché nel vostro passato ci sia qualcosa di simile, non può esservi più remoto di quanto sia a me il mio. Ma il pizzicorino sui garretti lo sente chiunque proceda sulla terra: il piccolo scimpanzè non meno del grande Achille.
Entro limiti più ristretti, tuttavia, sono in grado di corrispondere alla vostra richiesta, e sono lietissimo di farlo.
La prima cosa che imparai fu a stringere la mano; la stretta di mano equivale a sincerità, e oggi che mi trovo al culmine della mia carriera, mi auguro che a quella prima stretta di mano possa aggiungersi anche la sincerità della parola. Essa non apporterà nulla di sostanziale al bagaglio di quest’accademia, e sarà di gran lunga inadeguata a ciò che da me si attende e che, con la miglior volontà, io non potrò dire; comunque, ritraccerà la direttiva che un’antica scimmia ha seguito per penetrare ed insediarsi nel mondo umano. Ma non saprei neppur dire quel poco che ascolterete, se non fossi perfettamente sicuro di me e se non godessi di una posizione saldissima su tutti i maggiori palcoscenici di varietà dei paesi civili.
Sono originario della Costa d’Oro. Come fui catturato, l’ho appreso da gente estranea. Una spedizione della ditta Hagenbeck – con il cui capo vuotai in seguito parecchie ottime bottiglie di vino rosso – era all’agguato nei cespugli sulla riva del fiume, quando la sera, in mezzo ad un branco, scesi a bere. Spararono, ed io fai l’unico ad essere colpito: mi buscai due pallottole.
La prima mi prese alla guancia e non fu niente di grave, ma mi lasciò una gran cicatrice rossa e perfettamente glabra, che mi valse l’orribile soprannome di Pietrorosso; un nome davvero inadatto e che, strano a dirsi, fu inventato da un’altra scimmia: come se quella macchia rossa sulla guancia fosse l’unico segno a distinguermi dallo scimmione ammaestrato Pietro, morto da qualche tempo e che godeva di una certa notorietà. Ma questo non appartiene al nostro argomento.
Il secondo colpo mi prese al disotto dell’anca. Quello fu un affar serio, ed è la causa che ancor oggi zoppico un poco. Recentemente, in uno scritto di non so quale fra gl’innumerevoli cialtroni che mi danno addosso sulle gazzette, si legge come e qualmente la prova che la mia natura scimmiesca non sia del tutto spenta, si abbia nella facilità con cui mi tolgo i calzoni di fronte ai visitatori per mostrar la traccia di quel colpo. Gli sparassero via ciascun dito dalla sua manina di scrittore, a quel tipo! Posso o non posso togliermi i calzoni davanti a chi mi pare? Non avranno da vederci altro che un vello ben curato e la cicatrice di un colpo – scegliamo bene il termine adatto a un preciso scopo, termine su cui però converrebbe non equivocare – di un colpo scellerato. Tutto è perfettamente visibile, non c’è nulla di nascosto, e quando si tratta della verità i più nobili intelletti sdegnano le sopraffine smancerie. Fosse invece quel signore a togliersi i calzoni quando gli fanno visita, certamente si vedrebbe dell’altro, e voglio pensare che se ne astenga per un elementare senso di prudenza. Ma allora, per favore, si tolga di torno con la sua sensibilità!

Da quelle ferite mi svegliai (e qui vanno precisandosi man mano i miei ricordi) chiuso in una gran gabbia sotto coperta del vapore di Hagenbeck. Non era una gabbia di ferro a quattro pareti: era formata da tre lati soltanto, fissati ad una cassa, che costituiva la quarta parete. La gabbia era troppo bassa per la posizione eretta e troppo stretta per quella a sedere: dovevo perciò starmene accoccolato, con le ginocchia piegate e sempre scosse da un tremito; e, poiché i primi giorni probabilmente non volevo vedere nessuno e preferivo restare al buio, stavo sempre rivolto verso la cassa, mentre di dietro le sbarre mi martoriavano la schiena. Cotesto modo di custodire le bestie selvagge subito dopo la cattura è generalmente ritenuto vantaggioso, e per la mia esperienza non posso negare che, dal punto di vista umano, effettivamente lo sia.
Allora però pensavo a tutt’altro.
Per la prima volta nella mia vita mi trovavo senza scampo;
perlomeno non mi era dato correre in avanti: davanti a me c’era la cassa, con le sue tavole strettamente connesse. È vero che fra le tavole si apriva una fessura, e quando la scoprii, la salutai con un irragionevole urlo di felicità; ma era una fessura che non bastava nemmeno ad infilarci la coda, e nessuna forza scimmiesca avrebbe potuto allargarla.
A quanto poi mi raccontarono, ero straordinariamente poco rumoroso, dal che dedussero che, o sarei morto presto, oppure, se fossi riuscito a superare il primo periodo critico, sarei stato particolarmente adatto ad essere ammaestrato.
Sopravvissi.
Cupi singulti, dolorose cacce alle pulci, stanche leccate a una noce di cocco, dar di testa contro la cassa e mostrar la lingua a chi si avvicinava: tali furono le prime occupazioni di quella mia nuova vita. Al disopra di tutto, una sensazione costante: non avevo scampo. Quello che allora sentivo come scimmia, oggi non mi è dato riferirlo che in termini umani, e quindi travisarlo; ma anche se non posso ritrovare la mia antica, scimmiesca verità, essa è posta, senza dubbio alcuno, nella direzione che sto delineando.
Tante vie, fin allora, mi erano state aperte dinanzi: e adesso nessuna! Ero in trappola. Se mi avessero inchiodato a terra, non avrei avuto minor libertà di scegliere il mio stato. Perché mai? Avevo un bel grattarmi a sangue fra le dita dei piedi, o premere il sedere contro la sbarra dell’inferriata fin quasi a tagliarmi in due, non mi capacitavo. Non avevo scampo, ma dovevo trovarlo, perché non potevo vivere senza. Sempre schiacciato a quella cassa, sarei immancabilmente morto. Ma poiché nella ditta Hagenbeck una scimmia ha il dovere di stare contro una cassa, io smisi di essere scimmia. Questa chiara e lampante deduzione maturò in chissà qual modo dentro la mia pancia: giacché le scimmie ragionano con la pancia.
Temo di venir frainteso sul concetto di scampo. Uso questa parola nel suo significato più consueto e più ampio. A bella posta non parlo di libertà. Ciò che io intendo non è il grande sentimento di libertà verso ogni direzione; da scimmia, forse, ho conosciuto quel sentimento, e ho conosciuto uomini che ardevano di provarlo. Ma, per quanto mi concerne, non ho aspirato né allora né ora alla libertà. Detto tra parentesi: troppo spesso la libertà è un modo d’ingannarsi tra gli uomini. E così come essa conta tra i sentimenti più nobili, altrettanto si può dire dell’illusione della libertà.
Più volte, prima di salire su un palcoscenico, mi è capitato di vedere qualche coppia d’acrobati che volteggiava in alto, presso il soffitto; balzavano, oscillavano, facevano salti, si lanciavano uno nelle braccia dell’altro, si tenevano con i denti per i capelli. «Anche questa,» pensavo, «per gli uomini è libertà: maestria del proprio movimento.» O irrisione alla santità della natura! Le risate della stirpe scimmiesca, a tale vista, sarebbero tali da far crollare il più solido edificio.
No, non cercavo libertà. Cercavo solo scampo: a destra, a sinistra, da qualunque parte; ad altro non aspiravo; e fosse pure lo scampo un’illusione, sarebbe stata una trascurabile illusione, come trascurabile era la mia esigenza. Camminare, camminare, questo volevo: non dovermene sempre stare a braccia in alto, appiccicato alla parete di una cassa.
Oggi me ne rendo ben conto: senza una gran calma interiore, non sarei riuscito a districarmi. E, forse, tutto ciò che son divenuto lo devo proprio alla calma che penetrò in me dopo i primi giorni trascorsi sulla nave. Di quella calma, a mia volta, sono debitore agli uomini dell’equipaggio.
Brava gente, nonostante tutto. Ancor oggi mi è piacevole ricordare il suono pesante dei loro passi echeggianti nel mio dormiveglia. Erano abituati a fare ogni cosa con estrema lentezza: se uno voleva stropicciarsi gli occhi, tirava su la mano come fosse un contrappeso. I loro scherzi erano grossolani ma cordiali, e alla loro risata si mescolava sempre una tosse minacciosa all’apparenza, ma priva di significato. Tenevano di continuo in bocca qualcosa da sputare, e sputavano dove capitava. Si lagnavano ad ogni momento per gli assalti delle mie pulci, però in realtà non me ne serbavano rancore: sapendo che il mio vello era la cuccagna delle pulci, e che le pulci saltano, portavano pazienza. Quando erano fuori servizio, talvolta alcuni si sedevano in circolo attorno a me; più che parlare, s’intendevano tra loro a mugolii; fumavano la pipa, sdraiati sulle casse, appena io facevo il minimo movimento, si picchiavano sul ginocchio; ogni tanto qualcuno pigliava una bacchetta e mi solleticava nei miei punti preferiti. Se oggi m’invitassero a fare una traversata su quella nave, certamente rifiuterei, ma è altrettanto certo che lì, sotto coperta, non potrei rievocare soltanto brutti ricordi.
La calma che conquistai nella cerchia di quegli uomini mi trattenne anzitutto da ogni tentativo di fuga. Se ci ripenso oggi, mi sembra di aver avuto almeno il presentimento che, per vivere, mi era necessario uno scampo, ma che non lo avrei trovato tentando di fuggire. Non so più se la fuga mi sarebbe stata possibile, ma penso di sì: ad una scimmia la fuga dovrebbe sempre esser possibile. Con la dentatura che ho adesso, bisogna che sia guardingo perfino nello schiacciare una noce; ma allora di sicuro sarei riuscito, in un certo tempo, a fracassare la serratura. Non lo feci. Che vantaggio ne avrei tratto? Non avrei neanche messo fuori la testa, e subito mi avrebbero riacciuffato, per rinchiudermi in una gabbia anche peggiore; oppure sarei potuto fuggire di soppiatto fra altre belve, per esempio fra le serpi giganti che mi stavano di fronte, e nella loro stretta sarei spirato; o magari mi sarebbe riuscito di correre fin sopra coperta e gettarmi fuori di bordo: avrei ballonzolato un po’ sull’oceano e poi sarei andato a fondo. Gesti disperati. Non ragionavo come un uomo, ma, sotto l’influsso dell’ambiente, mi comportavo come se avessi ragionato.
Non ragionavo, ma osservavo in tutta tranquillità. Vedevo quegli uomini andar su e giù, sempre gli stessi volti, i medesimi movimenti; sovente credevo di veder sempre lo stesso uomo. L’uomo, o quei tali uomini, giravano dunque indisturbati! Fu allora che una grande meta mi balenò dinanzi. Nessuno mi prometteva che, se fossi diventato simile a loro, la mia gabbia si sarebbe aperta: non si fanno promesse sulla base di condizioni che sembrano irrealizzabili. Quando però avviene che si realizzino, allora fanno la loro comparsa anche le promesse, e proprio là dove prima le avevamo cercate invano. Quegli uomini, in sè e per sè, non avevano nulla che trovassi molto attraente. Se fossi stato un seguace di quella libertà di cui discorrevo sopra, avrei certamente preferito l’oceano al genere di scampo che mi si schiudeva nel loro torvo sguardo. Comunque, prima di giungere a tali conclusioni, li osservai a lungo, e furono le osservazioni così accumulate a spingermi in una data direzione.
Imitare gli uomini era facilissimo.
Già dai primi giorni imparai a sputare; ci si sputava in faccia a vicenda, e la sola differenza era che io, dopo, mi pulivo la faccia con la lingua, loro no.
Presto seppi fumare la pipa come un vecchio lupo; se poi cacciavo il pollice dentro il fornello, l’intera sottocoperta si sganasciava dal ridere; soltanto che io non compresi per parecchio tempo che differenza ci fosse tra una pipa vuota e una piena.
Quella che mi diede le maggiori angosce fu la bottiglia dell’acquavite. Il suo odore era per me un supplizio; mi facevo forza il più possibile, ma ci vollero delle settimane prima che riuscissi a vincermi. Strano a dirsi, erano queste mie lotte interiori che producevano più impressione sugli uomini. Nel mio ricordo non riesco a distinguerli; so però che ce n’era uno che veniva a guardarmi, da solo o con altri, a qualsiasi ora del giorno e della notte; si metteva con la bottiglia davanti alla gabbia e mi dava lezione. Non riusciva a capirmi, cercava a tutti i costi di penetrare l’enigma della mia natura. Stappava lento la bottiglia e poi mi guardava, come ad accertarsi che avessi compreso; io lo guardavo sempre, devo ammetterlo, con morbosa, affannosa attenzione; nessun maestro umano avrebbe potuto trovare al mondo un allievo umano par mio.
Stappata la bottiglia, l’alzava verso la bocca, e il mio occhio lo incalzava fin nella gola; eccolo che ammicca contento di me, e avvicina la bottiglia alle labbra; io, esaltato al sentire che la mia mente va aprendosi, strillo e mi gratto in lungo e in largo, dove capita capita; lui, felice, imbocca la bottiglia e ne beve un sorso; la mia impazienza d’imitarlo tocca il parossismo, sicché m’imbratto tutto nella mia gabbia, e ciò lo riempie di nuova soddisfazione; adesso tiene la bottiglia a braccio teso, se la riporta di slancio alla bocca e la tracanna d’un fiato, arrovesciandosi in atto ostentatamente didattico. Io, spossato dalla smania troppo intensa, non riesco più a tenergli dietro e mi aggrappo debolmente alle sbarre, mentre lui termina la lezione teorica palpandosi il ventre e ghignando beato.
A questo punto inizia l’esercitazione pratica. La parte teorica non mi ha già eccessivamente stancato? Sì, non v’è dubbio ma tale è il mio destino. Acchiappo alla meglio la bottiglia che mi vien porta e la sturo tremando; vedo che ci riesco e sento tornarmi le forze a poco a poco; sollevo la bottiglia, con un gesto già appena dissimile dal modello, la porto alla bocca… e la scaglio via inorridito, inorridito anche se è vuota e non contiene più che il fetore, la scaglio inorridito al suolo: con grande tristezza del maestro, con maggior tristezza mia; e non basta a consolare nè me nè lui il fatto che non mi dimentichi, gettata la bottiglia, di palparmi la pancia in maniera esemplare e col più perfetto dei ghigni.
Troppo sovente la lezione finiva così. E il mio maestro – sia detto a suo onore – non se la prendeva con me; a volte, anzi, accostava la pipa accesa al mio vello e vi appiccava fuoco in qualche punto che faticavo a raggiungere, ma poi subito lo spegneva con la sua brava manona; non se la prendeva, capiva che lottavamo fianco a fianco contro la natura scimmiesca, e che in quella lotta io avevo la parte più ardua.
Che vittoria fu dunque, per lui come per me, quando una sera, davanti a un folto gruppo di spettatori – doveva esserci una festa, un grammofono suonava, un ufficiale s’intratteneva con gli uomini – quando quella sera, ripeto, afferrai inosservato una bottiglia d’acquavite posta per errore davanti alla mia gabbia, la sturai secondo le regole, davanti alla crescente attenzione del pubblico, la portai alle labbra e senza esitare, senza storcer la bocca, da bevitore consumato, girando gli occhi tutt’intorno, il gargarozzo sussultante, ne trincai il contenuto fino all’ultima goccia! Il gesto con cui scagliai lontano la bottiglia non fu da disperato, ma da artista; scordai, è vero, di palparmi la pancia, ma in compenso, non potendo farne a meno, spinto da una forza irresistibile e coi sensi in tumulto, cacciai chiaro e tondo un “Olà!”, proruppi in un suono umano, balzai con quel richiamo nella comunità degli uomini, e percepii, simile ad un bacio che si posasse su tutto il mio corpo grondante sudore, il grido che gli fece eco: «Sentite, parla!»
L’ho detto e lo confermo: non v’era nulla che mi attraesse nell’imitare gli uomini; li imitavo perché cercavo scampo, per nessun altro motivo. Del resto, anche quella vittoria non approdò a granché: ripersi subito la voce e non la riacquistai che dopo vari mesi, e mi tornò più forte che mai il disgusto per la bottiglia d’acquavite. Ma, nonostante tutto, ora sapevo in che direzione muovermi.
Quando, arrivati ad Amburgo, mi affidarono al primo istruttore, vidi subito le due strade a me aperte dinanzi: o il giardino zoologico o il varietà. Non esitai un attimo. Mi dissi: punta con tutte le tue forze al varietà, quello è lo scampo, il giardino zoologico non è che un’altra gabbia; se finisci lì, sei perduto.
E studiai, cari signori. Quando è necessario, quando è una via di scampo che occorre trovare, si studia, ve lo dico io, si studia freneticamente. Ci si sorveglia da soli con la frusta, ci si spella a sangue al minimo ostacolo. Come una palla di cannone, la natura scimmiesca si precipitò fuori di me e mi abbandonò, tanto che il mio primo istruttore diventò a sua volta quasi una scimmia e, interrotte le lezioni, dovette ben presto essere ricoverato in una clinica. Per sua fortuna ne uscì poco dopo.
Ma io feci un gran consumo di istruttori; ne adoperai alcuni anche contemporaneamente. Quando mi sentii più sicuro delle mie capacità, e il pubblico cominciò a seguire i miei progressi, schiudendomi la prospettiva di un radioso futuro, assunsi io stesso dei maestri, li insediai in cinque stanze comunicanti e studiai con tutti insieme, saltando senza tregua da una all’altra stanza.
Progressi inauditi, molteplice irrompere dei raggi del sapere nel cervello che si risveglia! Non lo nego: era una sensazione che mi rendeva felice. Ma tengo anche a precisare che non la sopravvalutavo allora, nè tanto meno oggi. Con uno sforzo rimasto finora impareggiato sulla terra, ho raggiunto la cultura media di un europeo. Può sembrare un fatto irrilevante di per sè, comunque ha il valore di avermi fatto uscire dalla gabbia, di avermi assicurato questo particolare sbocco, questa via di scampo umana. Sapete come si dice: darsi alla macchia. È quel che ho fatto io, mi sono dato alla macchia. Non avevo altra via, sempre partendo dal presupposto che escludevo la scelta della libertà.
Se considero il mio sviluppo e la meta che fino ad oggi si è prefisso, non mi lamento né mi rallegro. Con le mani nelle tasche dei calzoni, la bottiglia di vino posata sulla tavola, me ne sto mezzo sdraiato mezzo seduto sulla mia sedia a dondolo e guardo fuori della finestra. Se vengono visite, le ricevo nei dovuti modi. Nell’anticamera c’è il mio impresario, che accorre quando suono e ascolta ciò che ho da dirgli.
Quasi ogni sera ho recita, con successi che non potrebbero essere maggiori. E quando, a tarda notte, rientro da qualche banchetto, o da un simposio scientifico, o da piacevoli conversari, mi aspetta a casa una piccola scimpanzè semiammaestrata; in sua compagnia mi diletto alla maniera scimmiesca. Di giorno non desidero vederla: nel suo sguardo c’è la confusa follia della bestia addomesticata. Solo io so riconoscerla, e non la sopporto.
Tutto sommato, ho raggiunto ciò che volevo raggiungere. Non è esatto dire che non ne valeva la pena; e del resto rifiuto il giudizio di qualsiasi uomo; mi propongo solo di diffondere nozioni, non faccio che riferire, e anche a voi, illustrissimi signori accademici, non ho fatto che riferire.