Non potevo farne a meno di ricollegarmi al Dantedì del 25 marzo che celebra il Sommo Poeta. Lo faccio in maniera particolare, legata alla mia terra, quindi ricordando quel Dante Alighieri e la Sicilia, connubio che emerge nel Paradiso e nell’Inferno della Divina Commedia.


Il primo passo che qui cito scaturisce dall’incontro di Carlo Martello, figlio di Carlo II D’Angiò, con Dante. In questo canto il Poeta e Beatrice ascendono al Terzo Cielo di Venere e in quel momento incontrano il personaggio che si lascia andare al ricordo di quella bella Trinacria, quella che avrebbe governato se non fosse morto.
Dante fa trasparire da queste parole nostalgiche il malgoverno angioino che causò la rivolta dei Vespri e la perdita francese della Sicilia.
La breve descrizione geografica del Sommo sarebbe ispirata a quella fatta da Orosio (a cavallo tra IV e V secolo, discepolo di San Girolamo) secondo quanto asserisce Mario Casella nel suo “Questioni di geografia dantesca” (1927).
“Fulgeami già in fronte la corona
di quella terra che ‘l Danubio riga
poi che le ripe tedesche abbandona.E la bella Trinacria, che caliga
tra Pachino e Peloro, sopra ‘l golfo
che riceve da Euro maggior briga,
non per Tifeo ma per nascente solfo,
attesi avrebbe li suoi regi ancora,
nati per me di Carlo e di Ridolfo,
se mala segnoria, che sempre accora
li popoli suggetti, non avesse
mosso Palermo a gridar: ‘Mora, mora!’”.
Dante, Paradiso, Canto VIII
Ai versi danteschi dell’Inferno si deve invece una pennellata che riguarda l’Etna, la “focina negra”.
Qui a parlare è Capaneo-Καπανεύς, uno dei sette mitici re-eroi che diedero battaglia a Tebe. Era figlio di Ipponoo e di Astinome (o di Laodice). Sposò Evadne – figlia di Ares e di Tebea – e fu padre di Stenelo-Σϑένελος. A sua volta Stenelo fu uno dei pretendenti di Elena e poi partecipante alla guerra Troia insieme a Diomede figlio di Ares, re dei Bistoni, popolazione della Tracia, personaggio mitico che nutriva le sue cavalle con carne umana.
Tornando a Capaneo, questi era gigantesco, molto prepotente. Osò sfidare Zeus assaltando Tebe, così il dio lo colpì con un fulmine mentre scalava le mura della città. Sul suo solitario rogo funerario (non poteva essere bruciato con gli altri guerrieri perché colpito dal fulmine del dio, quindi considerato empio) si gettò la moglie per accompagnarlo nella morte.
Quando nell’inferno si rivolge a Dante, Capaneo lo fa con la sua consueta superbia, praticamente incurante e sprezzante della pioggia di fuoco che lo colpisce di continuo mentre giace su un’infuocata distesa di sabbia. È la pena prevista per lui per e per gli altri dannati in questo girone dell’inferno per i bestemmiatori (terzo girone del VII Cerchio dedicato alla punizione dei violenti contro Dio).
Capaneo lo dice chiaro al Sommo Poeta riferendosi a Giove – qui da intendere come Dio -: la divinità non potrebbe avere soddisfazione neppure se gli lanciasse contro tutti i fulmini costruiti da Vulcano e dai Ciclopi nella nera fucina dell’Etna.
Qual io fui vivo, tal son morto.
Se Giove Stanchi ‘l suo fabbro da cui
Dante, Inferno, Canto XIV
crucciato prese la folgore aguta
onde l’ultimo dì percorso fui
o s’elli stanchi li altri [Ciclopi] a muta a muta
in Mongibello a la focina negra,
chiamando “buon Vulcano, aiuta, aiuta!”,
sì com’el fece a la pugna Flegra [Tessaglia, la battaglia nella pianura di Flegra dove, secondo il mito, Giove fulminò i giganti ribelli],
e me saetti con tutta sua forza:
non ne potrebbe aver vendetta allegra