Vita disagiata, di piena povertà quella di Enriqueta Martí, almeno nella sua prima parte d’esistenza. Poi seppe inserirsi in uno strano e occulto mercato, quello dell’alta borghesia catalana di Barcellona che agli inizi del 1900 cercava rimedi miracolosi per stare in salute, per l’eterna giovinezza, per rimandare l’inevitabile. Enriqueta, dopo essersi prostituita, iniziò la sua carriera da fattucchiera e iniziò a proporre le sue pozioni e i suoi metodi. Uno di questi era semplice quanto terrificante. Le valse un soprannome: la Vampira di Barcellona o la Vampira del Carrer de Ponent. Per garantire forza e lunga gioventù ai suoi clienti, la donna proponeva anche trasfusioni di sangue prelevato da bambini. Nel 1912 fu arrestata e l’orrore venne alla luce.


Tutto avveniva in una zona centrale oggi ben conosciuta, a El Raval, molto popolata fino a parte del XX secolo, luogo della seconda fase di sviluppo storico di Barcellona. Oggi il quartiere è pieno di locali, trasudante multiculturalità, ricco di boutique anche se non vi risaltano grandissime firme internazionali. Punti di riferimento locali sono due grandi mercati tradizionali, fantastici, coloratissimi, la Boqueria su Las Ramblas e Mercat Sant Antoni. Poi i poli artistici con il Museo di Arte Contemporanea di Barcellona e il vicino Centro di Cultura Contemporanea di Barcellona. Ma questi sono solo degli accenni. Nella parte più vicina al porto la zona fu resa sicura e fu ripulita circa 35 anni fa dopo un periodo in cui dominava la prostituzione.
Per la storia che vi sto raccontando devo tornare ai primi del 1900.
Prima lavorò come donna di servizio e nutrice in case notabili, per guadagnare molto di più passò a fare la prostituta nel barrio di Santa Madrona, parte del successivo e più grande barrio El Poble-sec. Ma non bastava. I contatti di quando faceva la cameriera in case ricche le tornarono utili per altro.
Potete immaginare in cosa si trasformò tutta l’attività di Enriqueta quando andò oltre il prostituirsi. Doveva cercare la materia prima utile al suo commercio. In città sparivano bimbi di varie età, molti venivano uccisi.
A sequestrarne una buona parte fu proprio lei.
Li adescava nel Barrio gotico o al Raval offrendo loro caramelle e dolcetti. Doveva farlo. I minori dovevano avere dai 5 ai 13 anni circa per essere “commerciabili”.
Prima di essere ammazzati e utilizzati per la preparazione di pseudo-pozioni, cataplasmi, creme (anche per il viso) e unguenti, quei bambini dovevano passare per un precedente calvario: far parte anche di un giro d’affari che pescava tra ricchi pedofili pronti a pagare molto per incontri sessuali con i piccoli.
Oltre a farli prostituire, i minori le servivano quindi come ingrediente per i suoi rimedi: utilizzava sangue, ossa, midollo, grasso e intere parti di quei poveri corpi.
Enriqueta Martí Ripollés, questo il suo nome completo, non si faceva mancare nulla pur di racimolare danaro, tanto che riuscì poi ad acquistare diversi immobili grazie ai grandi guadagni fatti sulle spalle di tanti bambini.
Giovanissime esistenze distrutte. Non tornarono più alle loro famiglie.
Del resto in quegli anni a Barcellona la prostituzione giovanile aveva un florido mercato. A tutto questo la donna aggiungeva le sue atrocità.
Ho deciso di scriverne perché proprio a Barcellona un paio di amici mi hanno portato nella via dove la sanguinaria strega abitava, al numero 29 di Carrer de Ponent, oggi Carrer de Joaquín Costa. Nella nostra epoca questa è una strada molto frequentata del centro, colma di negozi e punti ristorazione, a poca distanza dal Museo d’Arte Contemporanea e dal Centro di Cultura Contemporanea.
A inizio 1900 la situazione in zona era del tutto differente.

Questa donna si adattava ai diversi momenti della giornata, si esibiva in due vesti del tutto differenti.
Come mendicante la mattina andando in giro per il centro città chiedendo l’elemosina o adescando bambini. In serata si trasformava, diveniva una signora elegante quando andava al Teatre del Liceu ed al nuovo Casino e Grand Hotel de la Rabassada (o Arrabassada), appena fuori Barcellona. Non ci andava per giocare o per darsi alla vita godereccia: avvicinava membri della bella società per far prostituire i bambini o per vendere i suoi rimedi miracolosi. A quanto pare molti dei rapporti sessuali con i piccoli venivano consumati al Casino.
Su Carrer de Picalquers, non lontano da casa sua, quella donna seppellì molti resti non utilizzati di quei bimbi.
Enriqueta Martí era furba, conosceva perfettamente la società di Barcellona e colse ogni occasione. Sapeva che la vita nelle classi disagiate valeva ben poco, quindi rapiva bimbi appartenenti alle famiglie più povere, spesso figli di prostitute. Sapeva che in questo modo non avrebbe suscitato quelle forti reazioni che, altrimenti, sarebbero state molto pericolose.
Agì per diversi anni senza incontrare problemi. Il suo bordello attirava clienti già dal 1909.
Dopo le indagini e il suo arresto, fu ipotizzato che lei abbia rapito e fatto sparire 12 bambini. Ci fu chi giunse persino a immaginare che abbia preso e utilizzato più di 20 bambini. Nei racconti della cronaca dell’epoca, in articoli e i titoli roboanti, arrivarono a presupporre il rapimento di 40 bambini. Questo dà perfettamente l’idea della situazione sociale in città, del disagio, di quanti delitti e sparizioni avvenissero giornalmente.


L’errore definitivo della vampira di Barcellona fu rapire Teresita Guitard Congost appartenente a una famiglia borghese di levatura economica medio-alta. I genitori, che ne avevano il potere, scatenarono giornali e opinione pubblica nella ricerca della figlia.
Determinante fu una signora avanti in età, una professionista del pettegolezzo nonché vicina proprio di Enriqueta. Si chiamava Claudia Elías.
Un giorno questa signora vide una bambina oltre i vetri di una finestra dell’appartamento di Enriqueta. La piccola era calva, aveva i capelli del tutto rasati, ma dal viso le parve di riconoscere proprio Teresita, la bimba tanto cercata in città grazie a quanto i genitori avevano divulgato e fatto pubblicare.
Come era per sua natura, Claudia Elias iniziò a spettegolare e a raccontare di questo suo avvistamento, iniziando dal marito che poi fu uno degli informatori della polizia. Passò pochissimo tempo e la diceria arrivò al commissariato. Gli agenti entrarono subito in azione.
Due le bambine trovate a casa di Enriqueta: una era proprio la piccola Teresita; l’altra si chiamava Angelita che, secondo l’immediata versione dell’assassina, era sua figlia, avuta dalla tormentata relazione col pittore Juan Pujalò. La stessa Enriqueta per giustificare la presenza di Teresita affermò che l’aveva trovata abbandonata, sporca e lacera per strada, quindi l’aveva portata a casa per aiutarla.
Fu Angelita che, interrogata dai poliziotti, raccontò la storia più inquietante e terribile.
In breve, in quella casa insieme alle due bambine c’era anche un maschietto, Pepito.
Una volta, come castigo, il piccolo era stato rinchiuso in una stanza dove la torturatrice aveva detto alle due bambine di non entrare, per nessun motivo.
Le due piccole però disubbidirono.
Una sera, rinchiuse da sole nell’appartamento, entrarono proprio in quella stanza. Pepito non c’era, ma il sangue era ovunque e sentirono un odore orrendo, rivoltante.
Seguendo un’altra variante dello stesso racconto, Angelita dovette assistere al momento in cui Enriqueta uccise Pepito.
Nella casa della donna i poliziotti trovarono anche contenitori in vetro con dentro ossa di bambini e ciocche di capelli ben conservati, altri erano pieni di sangue coagulato o di grasso.
Scoperta la realtà dei fatti, Enriqueta Martí fu arrestata definitivamente e processata.
In giudizio testimoniò in suo sfavore anche l’ex, Juan Pujalò, che affermò di non aver mai avuto una figlia con quella donna. Dopo si capì che Angelita era figlia della sorella dello stesso Juan.
Condannata al carcere a vita, fu rinchiusa nel carcere femminile di Reina Amàlia. Aveva 43 anni. Un anno dopo, il 12 maggio 1913, fu uccisa da alcune detenute: non è mai stato chiarito se per linciaggio o se appena prima era stata avvelenata.

A oltre un secolo di distanza c’è chi afferma che Enriqueta sia stata il capro espiatorio di una situazione sociale malata, un agnello sacrificale per proteggere segreti che avrebbero colpito persone molto influenti. Alcuni addirittura sottolineano che la vicenda doveva coprire l’allora cultura patriarcale e capitalista…
Sono teorie che comunque non smontano l’efferatezza di quella donna. Oltretutto lei non ricattava nessuno, voleva tener ben nascosti i suoi segreti e quelli dei suoi clienti perché già così le rendevano molto. Né minacciò di parlare una volta che fu catturata.
Probabilmente la sua condanna fu fatta passare come simbolo della giustizia ritrovata in un’epoca piuttosto oscura per la città catalana.
Da quei lontanissimi anni tutta questa storia venne pian piano eclissata, Bisognava dimenticarla. Barcellona non poteva tener viva quella vicenda così orribile e vergognosa.
Neppure nella strada dove abitava Enriqueta e dove si svolsero molti di quegli orrori, oggi esiste un minimo di indicazione che ricordi la vicenda.
È rimasta solo la memoria delle persone che lì abitano da sempre. Praticamente estinti coloro che sopravvivono ancora all’età molto avanzata, sono i loro nipoti a rammentare la storia della Vampira di Barcellona tramandata in famiglia da una generazione all’altra.
La feroce assassina d’inizio 1900 riportata alla memoria da una simile dei nostri tempi, sempre a Barcellona
Dal 2008 è stato Marc Pastor col suo volume La Mala Dona (in Italia, La Maledetta-link) a far rivivere questo ricordo, influenzato da quello che era stato il suo lavoro: laureato in Criminologia e Politica Criminale, è stato un agente, membro della polizia scientifica dei dei Mossos d’Esquadra; aveva seguito le tracce di un’assassina, Remedios Sánchez conosciuta come “La Reme” o “la mataviejas”, una cuoca di 48 anni che in questo XXI secolo uccideva donne anziane per rapinarle.
Rovinata economicamente giocando continuamente alle slot-machine, Remedios ingannava donne di una certa età, si infilava nelle loro case e poi le assaliva con furia omicida per derubarle. Le sopravvissute ce la fecero solo perché l’assassina le credette morte, altrimenti oggi sarebbero sottoterra.
Nell’estate del 2006 Remedios, riconosciuta grazie alle immagini riprese da alcune telecamere di sorveglianza, fu rintracciata dai Mossos d’Esquadra (corpo di polizia regionale della comunità autonoma spagnola della Catalogna): la donna stava giocando compulsivamente in una sala bingo in via Provença, vicina alle case di alcune sue vittime più recenti. Nella perquisizione del suo appartamento gli agenti trovarono più di 250 gioielli come anelli, collane, orecchini, orologi, vecchie monete, insieme a libretti di banca delle vittime e a denaro contante.
Il Tribunale di Barcellona l’ha condannata a 144 anni, 5 mesi e 29 giorni di reclusione per l’omicidio di tre donne anziane, per cinque tentati omicidi, sette reati di rapina con violenza e un furto. È stata rinchiusa al Centre Penitenciari Can Brians di Barcellona.
Da quella esperienza personale lo scrittore ha imbastito mentalmente un parallelismo tra le due assassine, tra Remedios ed Enriqueta Martí, tanto da voler ricostruire quell’antica vicenda di sangue d’inizio 1900 (su Amazon il libro è anche in Lingua Catalana) raccontandola nel suo volume.