Cesare Pavese amava intensamente e con un incanto che si allineava alla gioventù. Un innamoramento forte e fresco, ma fuori dalla realtà delle cose. Questo ne colpì in profondità l’animo. “Ti amo. Di questa parola so tutto il peso – l’orrore e la meraviglia – eppure te la dico…”. Si tratta di un passaggio, quello che porta al racconto del sentimento, è un frammento della lettera alla sua amata Connie.
Questo che qui racconto è un breve viaggio a tappe lungo i primi otto mesi del 1950. Un inizio carico di promesse, un amore che sembra prendere vita, ma esistente solo nella mente del poeta.
Poi i mesi bui e la fine.
Le parole che ho usato per il titolo compongono un passaggio che spesso viene citato da solo, estratto dal contesto completo che fu scritto dal poeta, estirpato dal suo ventre originario.
Ti amo. Di questa parola so tutto il peso – l’orrore e la meraviglia – eppure te la dico, quasi con tranquillità. L’ho usata così poco nella mia vita, e così male, che è come nuova per me.


Ho sempre visto come innaturale questa sorta di estrazione, fatta sì per comodità d’uso come citazione.
Preferisco la veste originale, il terreno fertile che l’ha partorita, l’intero paesaggio di parole e sentimenti di cui l’espressione ha fatto parte fin dall’inizio.
Così inserisco l’intera lettera di Cesare Pavese destinata alla donna che amava, l’attrice Constance Dowling o Connie, l’ultimo suo amore.
Un messaggio universale sull’amore, sul “Ti amo”, calato però nella specifica individualità del poeta, nel suo modo di vivere i sentimenti e le situazioni.
Cara Connie,
volevo fare l’uomo forte e non scriverti subito, ma a che servirebbe? Sarebbe soltanto una posa. Ti ho mai detto che da ragazzo ho avuta la superstizione delle “buone azioni”? Quando dovevo correre un pericolo, sostenere un esame, per esempio, stavo attento in quei giorni a non essere cattivo, a non offendere nessuno, a non alzare la voce, a non fare brutti pensieri. Tutto questo per non alienarmi il destino. Ebbene, mi succede che in questi giorni ridivento ragazzo e corro davvero un gran pericolo, sostendo un esame terribile, perché mi accordo che non oso esser cattivo, offendere gli altri pensare pensieri vili. Il pensiero di te e un ricordo o un’idea indegni, brutti, non s’accordano.Ti amo.
Cesare Pavese, 17 Marzo 1950
Cara Connie, di questa parola so tutto il peso – l’orrore e la meraviglia – eppure te la dico, quasi con tranquillità. L’ho usata così poco nella mia vita, e così male, che è come nuova per me. Amore, il pensiero che quando leggerai questa lettera sarai già a Roma – finito tutto il disagio e la confusione del viaggio -, che vedrai nello specchio il tuo sorriso e riprenderai le tue abitudini, e dormirai da brava, mi commuove come tu fossi mia sorella. Ma tu non sei mia sorella, sei una cosa più dolce e più terribile, e a pensarci mi tremano i polsi.
Cesare Pavese conobbe Constance e la sorella Doris a casa di amici durante il Capodanno del 1950.
Connie era un’attrice statunitense che aveva recitato in Italia dal 1946. Quel loro trovarsi avvenne dopo che lei aveva fatto parte del cast di Riso amaro con Vittorio Gassman e Raf Vallone.
Fu un incontro senza risvolti particolari. Non in quel momento.
Dovette passare del tempo.
Pochi giorni dopo però, il 14 gennaio, il poeta scrisse sul suo diario (quello che fu pubblicato dopo la sua morte, nel 1952, con il titolo Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950):
“Ripensando alle sorelle D. so che ho perduto una grande occasione di fare sciocchezze”.
Il secondo incontro, questa volta solo con Connie, fu a Torino. In quell’occasione lei lo convinse a passare insieme qualche giorno a Cervinia.
Dal diario di Cesare Pavese: “6 marzo. Stamattina alle 5 o 6. Poi la stella Diana, larga e scintillante sulle montagne di neve. L’orgasmo, il batticuore, l’insonnia. C. è stata dolce e remissiva, ma insomma staccata e ferma. Il cuore mi ha saltato tutto il giorno, e non smette ancora. (..) Quella che si chiama passione non sarà poi semplicemente questo dibattersi del cuore, questa tara nervosa? Sono molto deteriorato dal ’34 e dal ’38. Allora ero smaniosissimo ma non malato. (..)
9 marzo. Battito, tremore, infinito sospirare. Possibile alla mia età? Non mi succedeva diverso a venticinque anni. Eppure ho un senso di fiducia, di (incredibile) tranquilla speranza. È così buona, così calma, così paziente. Così fatta per me. Dopotutto, lei mi ha cercato. (..)
16 marzo. Il passo è stato terribile eppure è fatto. Incredibile dolcezza di lei, parole di speranza. Darling, sorriso, lungo ripetuto piacere di star con me. Le notti di Cervinia, le notti di Torino. È una ragazza, una normale ragazza. Eppure è lei – terribile. Dal profondo del cuore: non meritavo tanto”.
Di quei giorni c’è una poesia datata 11 marzo inserita nella raccolta “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” dal titolo di una delle poesie lì contenute, volume pubblicato dopo la morte del poeta.
To C. from C.
You,
dappled smile
on frozen snows-
wind of March,
ballet of boughs
sprung on the snow,
moaning and glowing
your little “ohs”-
white-limbed doe,
gracious,
would I could know
yet
the gliding grace
of all your days,
the foam-like lace
of all your ways-
tomorrow is frozen
down on the plain-
you, dappled smile,
you, glowing laughter.—
(di seguito tradotta Italiano)
Tu,screziato sorriso
su nevi gelate-
vento di Marzo,
balletto di rami
spuntati sulla neve,
gemendo e ardendo,
i tuoi piccoli “oh!”-
daina dalle membra bianche,
graziosa,
potessi io sapere
ancora
la grazia volteggiante
di tutti i tuoi giorni,
la trina di spuma
di tutte le tue vie-
domani è gelato
giù nella pianura–
tu, screziato sorriso,
tu, risata ardente.
Il 17 marzo 1950, il giorno dopo che Connie si era allontanata per tornare a Roma, Cesare Pavese scrisse a lei quella lettera che ho inserito all’inizio di questo articolo.
Un amore che era un’illusione visto che Connie aveva già una relazione con l’attore Andrea Checchi.
Lei poi partì per tornare negli Usa e cercare di sfondare a Hollywood.


Cesare Pavese sprofondò nella depressione, nell’infelicità. A Connie volle fare una dedica-addio col romanzo La luna e i falò: «For C. – Ripeness is all».
Il poeta e scrittore fu poi attaccato dagli intellettuali comunisti per aver scritto nell’apertura della rivista Cultura e realtà di essere di fede poetica che si ispirava a Giambattista Vico.
La cosa gli procurò parecchi problemi suscitandogli profonda amarezza.
Quel periodo del 1950 fu per lui molto duro.
Nel giugno di quell’anno ricevette il Premio Strega per La bella estate, raccolta di tre romanzi brevi scritti in tempi differenti, pubblicati da Einaudi di Torino nel 1949, inseriti nella collana “I supercoralli”.
Il premio non gli risollevò l’anima.
Ad agosto Cesare Pavese passò alcuni giorni a a Bocca di Magra, in Liguria, meta preferita di molti intellettuali.
In quel momento e in quell’ambientazione, la breve storia che ebbe con Romilda, ragazza di 18 anni appartenente alla nobile famiglia dei Bollati di Saint-Pierre, non fece sparire la depressione che era padrona del suo animo.
Due ultime date con altrettante frasi che lasciò tracciate sul suo diario.
Il 17 agosto: «Questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò».
Il 18 agosto: «Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più».
Il 27 agosto del 1950, in una camera dell’albergo Roma di Piazza Carlo Felice a Torino, dove era arrivato il giorno prima, Cesare Pavese si uccise inghiottendo più di dieci bustine di barbiturici, quelli che solitamente usava per dormire la notte.
Lasciò un ultimo pensiero scritto sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò che aveva poggiato su un tavolino: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».
Sempre nel libro un floglietto, inserito tra le pagine, che riportava tre sue frasi:
«L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia»;
«Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti»;
«Ho cercato me stesso».
Chiudo proprio con la poesia “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” (marzo 1950) che Cesare Pavese dedicò proprio a Connie e all’amore dileguatosi.
Un abbandono all’amore e alla morte che il mondo dona, una visione praticamente leopardiana.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi,
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
