Generazioni evoluzione: quando la chiamata al voto fa riflettere. Che mondo-pantano stiamo consegnando a giovani che oggi crescono più liberi, più consapevoli?

Durante le scorse giornale elettorali del 3 e 4 ottobre mi sono praticamente scontrato con una doppia realtà. Sottolineo “scontrato” perché caratterizzato da aspetti molto piacevoli calati, purtroppo, in una realtà da raccapriccio.

Da presidente di sezione elettorale ho potuto contare su un gruppo tutto nuovo di quattro scrutatori. Un diciottenne, due ragazze over venti, un over trentenne. Svegli, brillanti, efficienti e con belle esperienze di vita a prescindere dalla loro età.

Il caso ha giocato a mio favore perché nessuno – e ripeto nessuno – degli scrutatori designati si era presentato.

Tutto è iniziato sabato 2 ottobre alle 16. Ero fuori dall’edificio scolastico del quartiere romano di San Lorenzo, struttura che ospitava la mia sezione elettorale più altre quattro. Lì davanti, in attesa, due ragazze aspiranti supplenti. Le ho cooptate. I loro sguardi mi dicevano qualcosa. È vero, era solo una mia intuizione, null’altro, però secondo me loro avrebbero funzionato.

Gli altri due mancanti sono arrivati poco dopo, grazie anche a vari giri di telefonate e a una coincidenza di incontri. Nel segno della parità di genere nella sezione eravamo nel numero regolamentare di sei, tre donne e tre uomini.

Per due dei quattro scrutatori, esperienza zero in una sezione elettorale. Già “svezzati” gli altri due. Al mio fianco la mia storica amica Gloria, efficientissima e bravissima segretaria di sezione, capace di districarsi fra centinaia e centinaia di pagine dei verbali che in più punti riportano frasi sconclusionate, sibilline, dal significato contorto. Dopo tanto tempo siamo comunque abituati al “linguaggio burocratese-elettoralese“. Ad altri crea mal di testa infiniti e disorientamento mentale.

Nei fatti, appena dopo la scelta degli scrutatori, non potevo prevedere cosa aspettarmi dalla conduzione del lavoro nella sezione elettorale.

Una cosa certa c’era: il caos preordinato del sistema di raccolta del voto. Anacronistico. Quello che in un articolo precedente (link) ho definito primitivo.

A parte la preparazione delle schede e dell’ambiente di sezione, compensare la mancanza di piani d’appoggio, assicurare un’areazione sufficiente per motivi sanitari e per compensare il puzzo di tutta quella strana carta – compiti ultimati il sabato pomeriggio – abbiamo trascorso insieme tantissime ore domenica, dalle 7 del mattino alle 23 serali e il successivo lunedì fino a conclusione dello spoglio, alle ore 21,15.

L’allegria giovanile è stata contagiosa, fattore che non ha allentato l’attenzione e la scrupolosità nel controllare le operazioni di voto, ma che è stato fondamentale per far accorciare psicologicamente quelle giornate.

Ma non solo di pura allegria s’è trattato. Ci sono stati anche confidenza e complicità.

Come in un film, in una rappresentazione teatrale o nel mondo scaturito dalle pagine di un buon libro, ecco il racconto di vite ed esperienze. Quei ragazzi si sono rivelati.

Davanti a me sono apparse situazioni che non avrei mai immaginato nella forma in cui sono state vissute, quelle che ai miei tempi, calato alla loro età, non avrei mai potuto sperimentare nello stesso modo. Non con la stessa naturalezza. La vita è cambiata in meglio. Generazioni evoluzione.

Con i loro racconti questi ragazzi, i miei scrutatori, sono riusciti a farmi comprendere come abbiano potuto dare forma in maniera lineare, naturale, alla loro esistenza, all’impostazione della loro formazione, quella che li porterà alla professione. Ma, soprattutto, hanno potuto modellare liberamente e apertamente la loro vita personale, fattore quest’ultimo che mi ha lasciato sorpreso, compiaciuto e rasserenato per quanto oggi hanno raggiunto.

Situazioni e racconti accomunati nei loro elementi fondamentali, nonché del tutto trasversali rispetto a situazioni economiche, di ceto sociale, di tipologia di famiglie, di realtà territoriali romane e non.

Una torre di verità che è emersa mentre eravamo circondati da carte e fogli di circolari e istruzioni (o pseudo tali) in numero incredibile, da tabelle di scrutinio in otto copie (due, sul voto al Comune di Roma, quasi dello spessore dell’Annuario della Nobiltà Italiana o di una Bibbia di grande formato), da registri dei votanti, da scotch adesivo di carta che non attaccava (del tutto inutile – da casa abbiamo dovuto portare quello gommato), da buste in carta o in plastica che non avrebbero mai potuto contenere il materiale che avevamo ordine di infilarci, da tracimanti e oleose boccette di inchiostro nero (destinato al sacro e inviolabile “bollo di sezione”, più sacro del Santo Graal).

Riconosco che ho provato sentimenti contrastanti: l’assedio puzzolente di stantio attorno a noi, di questo sfascio generalizzato da dove stavano emergendo tante belle e promettenti storie, mi ha fatto provare attimi di scoramento.

Che razza di mondo stiamo consegnando a questi ragazzi?

Dall’enorme scheda azzurra ruzzolavano i nomi dei 22 candidati sindaco di Roma e i nomi degli oltre 1.300 aspiranti consiglieri comunali capitolini. Tutti affamati di voti.

Qual è stata la conseguenza di questa parata infinita di lettere e simboli partitici?

L’elettore ne è rimasto più confuso che persuaso, spesso fuggente, ancora di più latitante.

Situazione già compromessa da una campagna elettorale piena di ovvietà, poverissima di contenuti, spesso urlata da video o post social con pensieri che erano più degni di slogan da Facebook piuttosto che realistici per la soluzione di problemi quotidiani, tangibili, vissuti dalla gente.

La libertà di scelta è stata spaventata da una molteplicità assurda di proposte non decifrabili e ridicole, comprese le liste di saltimbanchi da scadente e volgare avanspettacolo che vengono fuori anche da video Instagram urlando, indossando preservativi integrali, non proponendo nulla. Personaggi che, al massimo, strappano risate.

Siamo alle comiche o alla politica?

Forse sarebbe meglio stringere le maglie che permettono di presentare liste e candidature: questa presunta tutela della molteplicità e della rappresentatività è una maschera senza significato. Serve solo a confondere la gente tenendola lontana dalle sezioni elettorali per mantenere la capacità attrattiva ed elettiva dei soliti “organizzati”.

Vogliono proporre una realtà sociale e di governo schizofrenica, nonché incapace. La “serviamo” a a giovani come quelli che hanno lavorato con me, che ho notato così liberi, più di noi quando avevamo la loro stessa età. Ragazzi che si preparano alla loro evoluzione, alla loro realizzazione umana e professionale, al loro essere esploratori determinati della vita.

Che razza di mondo stiamo consegnando a questi ragazzi?

La due giorni delle votazioni amministrative è stato un esempio perfetto.

La risposta alle urne è stata fiacca. Nella mia sezione si sono presentati 266 elettori su un totale di 637 persone con diritto di voto.

Per non parlare delle imprecazioni di alcuni elettori nel dover maneggiare la scheda-mostro nel ristretto spazio di una cabina elettorale e sul sottile piano d’appoggio. Impresa pari a una crociata per schiacciare quel foglio duro carico di nomi e simboli in modo che non fosse troppo spessa per riuscire a infilarla nell’apertura dell’urna.

Ho ben fissati nella memoria i rumoracci della carta stropicciata dall’interno delle cabine nei continui sforzi dei poveri elettori di domare la scheda azzurra che li voleva “fagocitare”, che si ribellava fra le loro mani.

Per la prima volta a Roma-San lorenzo, uno degli storici quartieri “rossi” della Capitale, ho visto due grandi assenze ai due estremi della popolazione: gli anziani sono arrivati in ranghi ridottissimi, al contrario delle tornate elettorali negli ultimi vent’anni, quando non sono mai mancati all’appello; ragazzi e giovani purtroppo molto latitanti.

Sono convinto che in questa panoramica che ho appena rappresentato sia radicata gran parte della disaffezione, del voto disertato. Tendenza deteriore sempre più profonda.

Non è stata solo la paura del Covid-19 a frenare, il timore del contagio, del non poter sapere se quelle matite (pur continuamente disinfettate), quei banchi, quelle porte, quei ripiani della cabine sarebbero stati toccati da vaccinati, da “tamponati” negativi al virus, da non protetti o da già contagiati. Se le persone incontrate all’ingresso e nei corridoi di quelle scuole potevano essere veicolo di virus o no.

Che razza di mondo stiamo consegnando a questi ragazzi?

In quei tre giorni ho letteralmente vissuto una realtà che ha due “personalità” opposte, bloccate su due binari che non si incontreranno mai.

Da una parte l’evoluzione delle vite di quei ragazzi che ho conosciuto come rappresentanti delle ultime generazioni, le loro scelte vissute con grande libertà, con grande naturalezza, anche in ambito familiare. Il che non ha escluso fatica, impegno, lavoro, scelte a volte dure, studio, perdite, rinunce. Ma con animo più sereno e con verità di vita oggi limpidamente palesi.

Dall’altra, l’ambiente vecchio che ci e li circonda, quello che non demorde, invischiante, rappresentato dalle sabbie mobili di un sistema-pensiero orrendamente bloccato. Un meccanismo paralizzante che ha tra i suoi “degni” rappresentanti anche il sistema elettorale, quello che dovrebbe fare esprimere le libertà… invece fa l’opposto: affoga tutto tra moduli, strumenti, burocrazia degni di uno o due secoli fa, meccanismi antiquati, obsoleti, retrivi, retrogradi, sorpassati, superati, vecchi e inefficienti nel brodo primordiale-acido della non-politica di oggi.

Che razza di mondo stiamo consegnando a questi ragazzi liberi che dovranno vivere in questo pianeta?

Li vogliamo trasformare per forza in disillusi, vuoti di cervello, impantanati, rabbiosi, pronti a scatenare energie psichiche in sterminate polemiche sui social? Li vogliamo perdere costringendoli a trovare la loro strada fuori dall’Italia? Null’altro? Può mai andarci bene questa assurdità?


Concludo con una personalissima e ardita connessione di tutto questo con l’antico mondo dell’Egitto faraonico, quello di 5.000 anni fa, frutto della mia passione da cultore dell’Egittologia.

Le aspirazioni personali, la realizzazione della propria natura, lo studio, erano stimolate dalle antiche famiglie del Nilo ed erano mezzo per arrivare a qualsiasi livello della società. Non furono affatto rari i casi di figli da famiglie poverissime e di schiavi (perché prigionieri di guerra o condannati per crimini) che studiando e lavorando raggiunsero i vertici della struttura statale.

Le classi sociali di quella lontana civiltà non erano basate fondamentalmente sulla condizione di nascita, ma sul lavoro e sulla carriera che si intendevano intraprendere.

“Sii un artista della parola, sicché tu sia potente. La lingua è la spada dell’uomo”.

Questa frase fa parte degli insegnamenti al giovane e futuro faraone Merikara il cui nome sta per “Amato dal Ka di Ra“. La lingua-parola era intesa come studio della scrittura che apriva ai testi sapienziali, alla cultura, al dominio del mondo. Tutto questo era reso possibile nelle “Case della Vita“, le scuole egizie cui tutti i bambini potevano partecipare.

Particolare della statua lignea del Ka del faraone Hor I o Hor Awibre (1777 a.C. – 1775 a.C.). Le due braccia sulla testa sono il carattere geroglifico egizio che deve essere letto “Ka” – Museo delle Antichità Egizie al Cairo

Considerando il nome di Merikara, vi è inserito Ra che è il dio solare della città di Heliopoli (Iunu o Ôn), divinità principale egizia sin dalle prime dinastie, donatore di vita nonché sovrano del cielo, della terra e dell’oltretomba.

Poi il Ka (Merikara). Secondo la religione egizia l’anima di ogni uomo era composta da più parti. Il Ka era una di queste: costituiva la forza vitale di ciascun individuo, cresceva con lui, ne determinava il carattere, i desideri, le propensioni, tutti aspetti da realizzare per un cammino spirituale e sociale completo.

Scritto questo, non mi resta che augurare buon Ka a tutti. Rendetelo felice e alimentatelo, realizzatelo nonostante questo mondo sia da ricostruire in molti suoi cardini… o proprio per rimodellare questa nostra zoppicante società.

Per la realizzazione piena a naturale di tutti.

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