Il nome dell’universale, il nome della rosa al di là del fiore terreno, dell’esistenza fisica: la parola, dall’Antico Egitto a Champeaux, Cluny, Shakespeare, Eco

Bernardo di Cluny, Guglielmo di Champeaux, Umberto Eco e l’importanza universale del nome al di là della sostanza. Riconosco che nelle loro frasi e nelle loro tesi i tre personaggi sembrano continuare una linea filosofico-religiosa che iniziò millenni prima, in Antico Egitto dove il nome di cose, persone e animali aveva di per sé un valore magico e trascendentale che andava oltre l’esistenza meramente fisica anche se a questa strettamente connessa.

“stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”.

“la rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi”.

… “della bellezza e del profumo di una rosa quello che rimane, quando il fiore appassisce e muore, è solo una parola: il suo nome”.

Umberto Eco inserì nel suo romanzo “Il nome della Rosa dando un’indicazione precisa nell’ambito dell’opera e di quanto asserito dai personaggi, quello di non afferrarsi alle cose terrene e guardare all’immortale, all’universalità che va oltre l’immanente. Concetto e frase latina ripresa dal poema del XII secolo “De contemptu mundi” di Bernardo di Cluny.

Per Guglielmo di Champeaux, filosofo, teologo e vescovo cattolico francese a cavallo tra XI e XII secolo, la tesi cambia veste. La Quaestio de universalibus quindi l’universale e gli universali – il tutto nella sua interezza – continuano ad avere una realtà che riguarda la conoscenza dell’essere (ontologica), della realtà, dell’oggetto in sé, prima e dopo l’immanente, l’esistenza dell’essere, dell’oggetto stesso: gli universali esistono ontologicamente già prima degli individuali.

E qui riecheggiano anche i versi di William Shakespeare che partì ugualmente da una rosa per una riflessione sull’esistenza e sull’essenza di tutto, ma ribaltando tutto il quadro (come sottolineò Eco in un’intervista su Repubblica il 21 febbraio 2016) sostenendo che le parole non contano niente, la rosa sarebbe una rosa con qualunque nome:

“What’s in a name? That which we call a rose,

By any other name would smell as sweet”.

“Cosa vi è in un nome? Quella che chiamiamo rosa

non cesserebbe d’avere il suo profumo dolce se la chiamassimo con altro nome”.

Romeo e Giulietta, atto II, scena II

Nome, universalità e vita terrena, elementi inscindibili nella cosmogonia e religiosità dell’Antico Egitto

Il nome rende riconoscibile nella vita terrena quanto sia universale, un concetto che diventa magico-esistenziale nella mitologia dell’Antico Egitto.

foto ©Giuseppe Grifeo

Proprio sulle rive del Nilo inizia la speculazione ideologica, ma anche religiosa, sull’universalità del tutto e del nome. Solo che in quel caso i due elementi erano strettamente legati, inscindibili: se di una rosa o di una una persona si sarebbe perso il ricordo del nome, anche la sua esistenza universale e ultraterrena futura andava a cessare.

Perché credete che nella remota civiltà del Nilo i nomi andassero scolpiti e scritti in continuazione? Non era solo un vezzo, un modo per far comprendere ai viventi e ai posteri quanti monumenti erano stati eretti in proprio nome, quante opere idrauliche, artistiche, templi erano stati completati per proprio ordine.

Considerate i nomi dei faraoni incisi e dipinti su palazzi, tombe, templi, fortezze. Anche quelli dei sacerdoti, degli artisti, commercianti, generali, ufficiali e popolo che – dopo la figura divina del sovrano – poterono godere di questa prerogativa solo da una certa fase dei periodi dinastici in poi, ma non all’inizio, non nell’era dell’Antico Regno quando l’ingresso al mondo ultraterreno era privilegio assoluto dei faraoni. Da lì le prime crisi, le rivolte: tutti volevano vivere in eterno, averne il diritto. Si entrò così nel Primo Periodo Intermedio, il primo appunto di crisi politica ed economica che caratterizzò la nazione del faraoni. Ma questa è un’altra storia (chi vuole può approfondire con i motori di ricerca e le enciclopedie online, oltre alle edizioni cartacee e tradizionali biblioteche).

I nomi venivano continuamente ripetuti, scolpiti, dipinti, disegnati/scritti persino sugli òstrakaὄστρακα che erano frammenti di anfore e di oggetti in argilla-ceramica adoperati soprattutto per esercitarsi a tracciare i geroglifici: chi pochi mezzi aveva, questi utilizzava.

La ripetizione e il tramandare il nome ai posteri, cavarlo nella pietra immortale, custodirlo nel nascosto dei sepolcri, garantiva la sopravvivenza eterna. La parola era potente.

In questo modo le diverse essenze che componevano lo spirito, secondo la religiosità egizia, avrebbero continuato a prosperare. Ma dovevano anche essere alimentati come avviene per il corpo nella vita terrena. Ecco quindi statuine di servi, dalle poche di chi, per questioni economiche, poteva farne modellare solo qualcuna, alle centinaia o migliaia infilate nei sepolcri dei faraoni, servi virtuali, ognuno con un nome che ne definiva la funzione, il servire, in modo da garantire per sempre la sopravvivenza dell’anima del defunto.

Rappresentazione degli elementi di una Casa della Vita

Tutto questo dà anche una parziale risposta a un altro nome, quello che all’epoca veniva dato alle scuole dove si insegnava a leggere e a scrivere i geroglifici: la Casa della Vita (pr-nq), questo il nome della scuola. Le parole intese come chiave di vita e di successo nell’esistenza ma non solo, anche come passepartout per l’immortalità.

La Casa della Vita era quindi un luogo sacro e doveva essere edificata secondo precisi dettami e orientamenti, consacrata a dei precisi. Osiride doveva essere elemento centrale come figlio di Ra, quindi “solarizzazione” e subordinazione al dio-Sole, il padre degli dei e irradiazione di vita.

La parte centrale dedicata appunto al fulcro-Osiride. Poi quattro ambienti consacrati a:

  • Horus, il Falco, dio protettore del Regno e dell’equilibrio universale;
  • Thoth, dio lunare, dio della scrittura, delle formule divine e magiche, della giustizia dell’aldilà, creatore grazie al potere della parola, rappresentato sia come un ibis o come un babbuino;
  • Nephthys, dea di molti cardini della vita terrena e ultraterrena, dea dell’oltretomba, protettrice della mummie, del parto, dei fiumi, guardiana del letto funebre di Osiride (“Nefti del letto della vita”);
  • Iside, la regina delle dee egizie, in origine divinità celeste, assimilata successivamente anche alla dea Hator e alla stella Sirio, sposa di Osiride del quale ricerca i pezzi dopo che era stato smembrato dal fratello-dio Seth, li ricompone e li riporta alla vita restando contemporaneamente incinta del marito in via di resurrezione generando Horus.

Tetto e pavimento di una Casa della Vita erano sempre consacrati a:

  • Nut, dea del cielo che lei stessa spesso rappresenta quando gli artisti egiziani la raffiguravano come una giovenca dal manto stellato, oppure con il suo corpo estremamente allungato e stellato, con mai e piedi a reggersi ricoprendo la terra col suo splendore;
  • Gheb, dio della terra, controparte nonché sposo di Nut, padre di Osiride, Iside, Seth e Nephthys, rappresentato con un’oca in testa che, nei fatti, è il geroglifico per la pronuncia del suo nome.

Inoltre, una Casa della Vita doveva avere quattro porte ai quattro angoli, aperte e allineate verso i quattro punti cardinali, quindi con sopra i simboli dell’ovest, del nord, dell’est e del sud. Est e ovest a simboleggiare il ciclo vitale, alba, tramonto, notte con viaggio nel mondo ultraterreno e il ritorno sopra la terra. Nord e Sud i poli conduttori, il primo con le stelle imperiture sempre visibili, punti di riferimento del terreno e del divino, quelle in cui ogni faraone e defunto voleva trasformarsi, le immortali, una delle stelle circumpolari, a differenza delle altre, sempre visibili a ogni ora della notte (ne ho scritto in questo articolo quando ho trattato degli equinozi).

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