Sull’uso della Lingua italiana ho scritto infiniti articoli non per ergermi a giudice, ad arbiter elegantiarum del “parlato” e dello “scritto”, ma in quanto giornalista da circa trent’anni e da operaio della parola non riesco a non vedere le numerose pecche oggi infestanti le frasi italiane infarcite di anglicismi e affini. I colleghi e il mondo dei manager rappresentano uno dei massimi esempi, ma la realtà delle imprese e della comunicazione aziendale o della politica seguono allo stesso livello.
E non si tenti di buttarla in pseudopolitica sottolineando che fare il purista (o meglio, affezionato) della lingua sia una cosa di destra, di centro o di sinistra: modo troppo elementare, utile a liquidare un argomento scomodo, per non affrontarlo.
Sui problemi della buona (non mi riferisco alla perfetta, ma solo alla buona) conoscenza di grammatica, terminologia, ortografia, ma anche sulle terribili mode linguistiche o sulla ricerca della parola, ho già avuto modo di scrivere, ma è un argomento parallelo a quello che mi accingo adesso ad affrontare. Qui metto un brevissimo elenco di questi miei trascorsi, titoli collegati agli articoli:
- Errori-orrori nella Lingua italiana scritta (anche parlata): siamo in pieno imbarbarimento da ignoranza?
- Foliage tra i termini oggi di gran moda, inflazionatissimo… ma che testiculage!
- Parole dimenticate, desuete, curiose, particolari
Torno all’obiettivo di questo mio scritto: anglicismi e similari, uso-abuso nelle frasi italiane, pigrizia mentale nel ricercare le corrispondenti espressioni che sono nella nostra lingua mascherando tutto con un finto respiro di managerialismo internazionale.
Io stesso in questo articolo continuo a utilizzare “manager”, anche se esistono termini corrispondenti. Il Vocabolario Treccani lo ricorda: “manager ‹mä′niǧë› s. ingl. [der. di (to) manage «maneggiare (cavalli), amministrare, governare», che risale all’ital. maneggiare] (pl. managers ‹mä′niǧë∫›), usato in ital. al masch. e al femm. (e comunem. pronunciato ‹mànager›). – 1. Dirigente d’azienda, di elevata posizione, che accentra in sé le funzioni dell’imprenditore, assumendo la responsabilità della conduzione dell’azienda (o di un settore aziendale) e delle relative decisioni, pur non essendo generalmente il proprietario. Il termine è usato anche in alcune espressioni composte, come, per es., area manager ‹èërië …›, corrisp. all’ital. direttore delle zone di vendita; e inoltre export manager ‹èkspoot …›, il responsabile delle relazioni commerciali con i mercati esteri, e con sign. più generico product manager ‹pròdạkt …›, responsabile di un prodotto o di una linea di prodotti, project manager ‹prëǧèkt …›, responsabile di un progetto, ecc. 2. Chi si occupa degli interessi economici e delle scelte di carattere tecnico di un atleta professionista, una squadra sportiva, un attore, un cantante, ecc., curandone le pubbliche relazioni e stipulando contratti in loro nome”.
Peccato veniale questo, ormai incancrenitosi nell’Italiano corrente. Chi volesse, potrebbe andare controcorrente e riutilizzare un nostro termine.
Già nel 2019 fu il Sole24Ore a scavalcare e a schiacciare l’abuso e l’utilizzo di anglicismi e similari sottolineandolo in un articolo pubblicato nella categoria “il lavoro che cambia”, dal titolo “Manager: oggi una competenza chiave è la lingua… italiana”.
Lorenzo Cavalieri, Managing Partner (in Italiano socio dirigente) della società di consulenza e formazione Sparring, scrisse questo articolo curando un preambolo in cui inserì quanto era richiesto ai manager di tutto il mondo e di quanto doveva completare il manager-tipo italiano, “l’identikit del manager perfetto è completato dalla conoscenza perfetta dell’inglese (e magari di un’ulteriore lingua straniera) e dalle cosiddette soft skills, le capacità creative, decisionali e di interazione efficace con gli altri”.
Poi, lo scrivente inserì il pensiero successivo, cruciale, su una forte criticità: “A questo quadro tuttavia manca qualcosa, una competenza fondamentale che essendo stata sempre data per scontata, non è mai entrata nel radar della formazione manageriale: la piena padronanza della lingua italiana. Oggi più che mai saper parlare e scrivere con una piena, disinvolta e forbita proprietà dell’italiano costituisce per chi lavora un enorme valore aggiunto. È un dato che suona paradossale se solo si pensa ai testi delle mail o alle conversazioni tipo che intercettiamo nella quotidianità: abbreviazioni, elenchi puntati, espressioni gergali, inglesismi, utilizzo di un numero sempre più limitato di parole”.
Non sto a rivelare altro contenuto di quell’articolo (il titolo che ho scritto più sopra è un link a quella pagina del Sole), ma Lorenzo Cavalieri ebbe modo di studiare a lungo la questione sull’uso della Lingua italiana. Analizzando dati e comportamenti dei manager italiani, focalizzò quattro punti di enorme vantaggio per quei dirigenti e per quelle figure chiave che non si lasciavano intrappolare dall’abuso di termini stranieri, professionisti che conoscevano al meglio la nostra lingua piegandola al meglio, utilizzata in maniera mirabile nel loro lavoro, con grande efficacia di risultati: “Oggi posso affermare con convinzione che esistono almeno 4 motivi per cui un manager italiano, pur lavorando nel «villaggio globale», è in grado di correre con una marcia in più quando è capace di usare in modo speciale e distintivo la sua lingua madre”.
Per quanto mi riguarda, noto un maggiore asservimento linguistico nel segno di un provincialismo rampante che porta molti a voler utilizzare anglicismi e simili per sentirsi più europei e mondiali.
Va benissimo solo in un’occasione: quando parlate o scrivete in Inglese o in altra lingua per farvi comprendere da colleghi stranieri. Altrimenti, è proprio stridente.
Come ho avuto modo di assaporare (non con gran piacere) in conferenze, scritti e libri e come ha fatto notare in un articolo anche la stessa Treccani, c’è da subire spesso l’assalto di espressioni come “question e happiness, convention ed exciting, career coaching e ability, coach e coachee, life skill, education e goal, administration e briefing”. C’è pure chi è arrivato a contrarre spending review in spending, azione senza alcun senso linguistico per un anglosassone.
Oppure gli “istituzionali”. Tra i tanti esempi possibili, jobs act o lockdown che in Italiano sono piano per il lavoro e isolamento/chiusura/blocco d’emergenza.
E i volantini che hanno cambiato nome in flyer??
Non nascondo che una volta, di fronte a questo ardito spettacolo di esibizione terminologica inglese in un convegno italiano per italiani, mi venne istintivo sorridere. In molti lo notarono: la mia espressione, sui contenuti della conferenza, non era congruente… solo io sapevo perché sorridevo. Anzi, dentro di me ridevo.
Ma, dopo un primo momento di sbalordimento, ci fu un’altra occasione di mia grande risata: alla fine di una mail in Italiano a me inviata da un italiano, il periodo si concludeva con “ASAP” che in Inglese sta per “as soon as possible”.
Scrivere “al più presto” o “al più presto possibile”, magari inaugurando – adesso sto giocando – una nuova abbreviazione italica “app” o “appp” (per non farla somigliare troppo all’abbreviazione di “applicazioni)”, sarebbe stato così “brutto”?
Spero che dietro tutto questo non ci sia un preciso intento di alcuni ambienti. Conscio o inconscio che sia. Mi riferisco all’idea di costruire un linguaggio da casta sacerdotale per elevarsi, sentirsi con una patacca sul petto, per tenere fuori i non ammessi, i non appartenenti, i “fuori dal club”.
Cesare Marchi, noto cultore della Lingua italiana, scrittore, giornalista, personaggio televisivo che in Rai era nella trasmissione Almanacco del giorno dopo o nel programma Unomattina occupandosi proprio del nostro idioma, ebbe modo di affermare: “Siamo dei miliardari che chiedono l’elemosina all’estero. In molti casi non solo abbiamo nel dizionario il vocabolo corrispondente, speculare […] ma addirittura una legione di sinonimi tra i quali possiamo scegliere quello che meglio rispecchia il nostro pensiero”.
Sono in pensione da un annetto, ma ricordo benissimo le riunioni cui ho partecipato negli ultimi anni. Era tutto un fiorire di termini stranieri, inglesi soprattutto, pronunciati da “manager” (o aspiranti tali), probabilmente per celare le loro lacune tecniche e le scarse capacità di direzione. Parlare di feedback, payroll, HR (“eic ar”) li faceva sentire più convincenti e preparati. Per non parlare dei nomi dati alle funzioni aziendali e ai ruoli, dove gli acronimi di definizioni in inglese si sprecano.
Quando cominciai a lavorare, girava la voce che una segretaria fosse stata trasferita perché aveva risposto “ok dottore” all’amministratore delegato. Era stata una reazione inappropriata, ma oggi si esagera in senso opposto.
Concludo chiedendo lumi su una questione, probabilmente, più pertinente alla dattilografia (che non ho mai studiato): ho sempre pensato che, dopo l’apostrofo, non andasse lo spazio (l’altruismo e non l’ altruismo). Ho visto che sia tu, sia altri, mettete lo spazio. Siccome apprezzo molto il vostro modo di scrivere, mi è sorto un forte dubbio sulla correttezza del mio modo di scrivere.
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No, dopo l’apostrofo lo spazio non va. Se l’ho fatto è un errore. Sono a un convegno, ma dopo controllerò
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Eccomi di nuovo. Non so se dopo ore di lavoro ho gli occhi stanchi, ma nell’articolo non trovo il punto dove l’apostrofo è diviso dalla parola che segue. Puoi segnalarmi dove si trova? Grazie 😉
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Ho scoperto l’arcano. Io leggo gli articoli dei blogger che seguo sul reader dell’app di WordPress ed ho notato che tutti mettono lo spazio dopo l’apostrofo. Se leggo lo stesso articolo tramite un normale browser, gli spazi scompaiono. Evidentemente, si tratta di un problema del reader di WordPress. Mi sembrava strano…
Scusa.
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Ecco! Mi stavo scervellando e ho letto il pezzo cinque volte di seguito cercando l’errore 😄😄
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