Il viso, utile schermo o maschera ingannatrice? Intimità, protezione, imbroglio: il gioco delle parti

«Se a ciascun l’interno affanno

si leggesse in fronte scritto,

quanti mai, che invidia fanno,

ci farebbero pietà!

Si vedria che i lor nemici

hanno in seno; e si riduce

nel parere a noi

felici ogni lor felicità».

Pietro Metastasio (1698 – 1782), dalla sua ampia produzione di ariette adatte a chiudere le singole scene nelle sue produzioni melodrammatiche

Qui in basso una sua lettera dove il poeta racconta il “gioco delle parti” in società. Una sorta di rappresentazione di come le maschere debbano essere indossate, di come il viso in certi momenti non debba lasciar trasparire nulla. Una lettera in cui racconta quel che pensa in verità.

A Francesco Algarotti – Berlino
Vienna I agosto 1751
Pietro Metastasio

“[…] Or, per terminare il racconto, questo mestiere mi divenne e grave e dannoso; grave perché, forzato dalle continue autorevoli richieste, mi conveniva correre quasi tutti i dì, e talora due volte nel giorno istesso, ora ad appagare il capriccio d’una dama, ora a soddisfar la curiosità d’un illustre idiota, ora a servir di riempitura al vuoto di qualche sublime adunanza, perdendo così miseramente la maggior parte del tempo necessario agli studi miei: dannoso, perché la mia debole fin d’allora e incerta salute se ne risentiva visibilmente.

Era osservazione costante che, agitato in quella operazione dal violento concorso degli spiriti, mi si riscaldava il capo e mi s’infiammava il volto a segno maraviglioso, e che nel tempo medesimo e le mani e le altre estremità del corpo rimanevan di ghiaccio.

Queste ragioni fecero risolvere Gravina a valersi di tutta la sua autorità magistrale per proibirmi rigorosamente di non far mai più versi all’improvviso […], a cui credo di essere debitore del poco di ragionevolezza e di connessione d’idee che si ritrova negli scritti miei. Poiché, riflettendo in età più matura al meccanismo di quell’inutile e maraviglioso mestiere, io mi sono ad evidenza convinto che la mente condannata a così temeraria operazione dee per necessità contrarre un abito opposto per diametro alla ragione.

Il poeta che scrive a suo bell’agio elegge il soggetto del suo lavoro, se ne propone il fine, regola la successiva catena delle idee che debbono a quello naturalmente condurlo, e si vale poi delle misure e delle rime come d’ubbidienti esecutrici del suo disegno.

Colui all’incontro che si espone a poetar d’improvviso, fatto schiavo di quelle tiranne, convien che prima di rifletter ad altro impieghi gl’istanti che gli son permessi a schierarsi innanzi le rime che convengono con quella che gli lasciò il suo contraddittore, o nella quale egli sdrucciolò inavveduto, e che accetti poi frettolosamente il primo pensiero che se gli presenta, atto ad essere espresso da quelle benché per lo più straniere, e talvolta contrarie al suo soggetto.

Onde cerca il primo a suo grand’agio le vesti per l’uomo, e s’affretta il secondo a cercar tumultuariamente l’uomo per le vesti. Egli è ben vero che se da questa inumana angustia di tempo vien tiranneggiato barbaramente l’estemporaneo poeta, n’è ancora in contraccambio validamente protetto contro il rigore de’ giudici suoi, a’ quali, abbagliati dai lampi presenti, non rimane spazio per esaminare la poca analogia che ha per lo più il prima col poi in cotesta specie di versi.

Ma se da quel dell’orecchio fossero condannati questi a passare all’esame degli occhi, oh quante Angeliche si presenterebbero con la corazza d’Orlando e quanti Rinaldi con la cuffia d’Armida!

Non crediate però ch’io disprezzi questa portentosa facoltà, che onora tanto la nostra spezie; sostengo solo che da chiunque si sagrifichi affatto ad un esercizio tanto contrario alla ragione non così facilmente:
…….. carmina fingi
posse linenda cedro, et levi servanda cupresso.[…]”

Pietro Antonio Domenico Bonaventura Trapassi, vero nome di Pietro Metastasio

Pubblicò nel 1717 le prime Poesie, una raccolta che comprende Il Convito degli Dei, idillio epico in ottava rima; Il ratto d’Europa, idillio mitologico in endecasillabi sdruccioli, l’ode Sopra il santissimo Natale, due capitoli sulla Morte di Catone e sull’Origine delle leggi.

Ma a spiccare fu la tragedia Giustino che il poeta e librettista scrisse a quattordici anni, opera suddivisa in cinque atti, con un coro finale.

Il vertice della sua capacità compositiva lo toccò anni dopo col melodramma che riusciva a plasmare in maniera incredibile (tra tutti: Didone, il Siroe, il Catone in Utica, l’Artaserse, l’Olimpiade, la Clemenza di Tito, l’Attilio Regolo). Melodrammi spesso rappresentati come tragedie, fusione di quelle antiche dalla Grecia fino alla tragedia francese eroica-galante. Il tutto condito dalle sue innumerevoli e appassionate ariette.

Aveva grande facilità di improvvisazione compositiva fin da bambino, tanto che iniziava a recitare versi per strada incantando i passanti. Tra questi, a restare fatalmente attratto fu il letterato e giurista Gian Vincenzo Gravina, dell’Accademia dell’Arcadia. Gravina lo prese con sé, lo considerò come un figlio e gli diede una solida istruzione,

Poi da giovanissimo, a Roma, dopo il periodo di studi classici in Calabria, a Scalea, vestì l’abito talare prendendo gli ordini minori.

Anni dopo, precisamente nel 1721, incaricato dal viceré di Napoli, compose gli Orti Esperidi per il natalizio di Elisabetta Cristina, moglie di Carlo VI: nella rappresentazione di questo dramma fu scelta Marianna Bènti-Bulgarèlli, detta la Romanina, per la parte di Venere. La donna si innamorò di Metastasio e lo agevolò nello studio della musica fino a portarlo al suo primo vero melodramma, la Didone abbandonata (1723). L’opera fu rappresentata nel 1724, molto apprezzata, un vero trionfo nonostante quella che l’enciclopedia Treccani racconta accompagnata dalla “mediocre musica di D. Sarro […] poi musicato da circa 40 altri maestri“.

La Romanina lo ispirò per dieci anni. Alla sua morte la artista lo lasciò erede dei suoi beni, cosa che Metastasio preferì rifiutare lasciando tutto al marito dell’appena defunta.

Un’altra donna fu per lui fondamentale, Marianna Pignatelli, dama di corte dell’imperatrice Maria Teresa, fattore che portò Metastasio a Vienna, alla Corte dell’Imperatore Carlo VI d’Asburgo.

Le opere postume di Metastasio furono raccolte e fatte stampare a Vienna nel 1795 dal Conte Sebastiano di Layala: raccolte in tre volumi vede il primo con una selezione di appunti personali sui classici greci e latini, scritti di critica letteraria (Poetica di Orazio; Estratto dell’Arte poetica d’Aristotile e considerazioni su la medesimaOsservazioni sul teatro greco), poi una grande quantità di lettere, più di 2000, risalenti al periodo viennese di Metastasio.

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