Era il 28 gennaio 1986, quindi 36 anni fa, lo Space Shuttle Challenger si lanciava verso il cielo alle ore 16,38 secondo il fuso orario UTC coincidente con il tempo medio di Greenwich. Era il 25° volo del programma Space Shuttle. Appena 73 secondi dopo il distacco dalla rampa di lancio, ecco l’esplosione che disintegrò la navicella. Personalmente ebbi un contraccolpo interno nel vedere quell’immagine terribile, oltre ad avere la certezza della fine per i sette membri dell’equipaggio. Pensai subito anche ai parenti di chi era nello Shuttle: come da tradizione, madri, mogli, mariti, figli stavano alla base di lancio per assistere in diretta.



Lo Space Shuttle Challenger era al suo decimo volo. Il lancio era stato posticipato più volte dalla data originaria prevista del 22 gennaio 1986. Poi, tra i ritardi della missione 61-C, il maltempo che imperversava sul sito di atterraggio transoceanico d’emergenza (TAL-Transoceanic Abort Landing) a Dakar-Senegal e la decisione di utilizzare Casablanca come pista TAL alternativa, ma non attrezzata per atterraggi notturni, si arrivò al 28 gennaio con decollo mattutino (sulla costa est statunitense erano le 10,30).
Il guasto a una guarnizione, un cosiddetto O-ring (stesso nome dato a guarnizioni presenti in molte parti meccaniche delle automobili) di una sezione del razzo SRB-Solid Rocket Booster destro a propellente solido, provocò il cedimento strutturale e l’esplosione. Nelle immagini registrate da telecamere a terra visionate durante l’indagine post disastro, appare evidente la non tenuta della guarnizione sin dall’istante del distacco da terra dopo solo 1,9 secondi (si vede uno sbuffo di materiale gassoso dal razzo di destra, ritratto da due telecamere diverse).

Millisecondo per millisecondo, le immagini poi analizzate mostrano più fasi degli ultimi istanti, come in un’autopsia della disgrazia: il serbatoio principale cede gradatamente per le sollecitazioni dal razzo destro, quindi l’inizio di perdita di ossigeno liquido, l’accensione dei gas; appena dopo l’esplosione, pezzi dell’ala sinistra, dei motori dello Shuttle e la sua parte frontale con la cabina dell’equipaggio emergono come sparati via dalla palla di fumo in espansione, del tutto troncati dal resto della navicella sbriciolata (lo evidenzia il video NASA che ho qui inserito più in basso).
Morirono il comandante Dick Scobee, il pilota Michael John Smith, gli specialisti di missione Judith Resnik, Ellison Shoji Onizuka e Ronald McNair, gli specialisti del carico Gregory Jarvis e Christa McAuliffe.
Non è la prima volta che scrivo sulle missioni Space Shuttle. Ne ho già approfittato l’11 aprile 2021 per scrivere un articolo (link) ricordando il primo volo della navetta riutilizzabile, in quel caso la capostipite Columbia, veicolo spaziale che al ritorno dai viaggi in orbita atterrava come su una pista come fosse un normale aereo: il primo lancio, la missione STS-1, avvenne oltre 40 anni fa, il 12 aprile 1981.
Il recupero dei detriti e le evidenze sulle cause del disastro
Un gruppo di 22 navi, 6 sottomarini e 33 aerei partirono subito per le operazioni di ricerca e recupero. Riportati a terra frammenti piccoli e grandi pari al 50 per cento della navetta. Le ricerche nell’Oceano Atlantico sono state fatte nei punti di impatto, ai margini della Corrente del Golfo in un’area di circa 150 chilometri quadrati, fino a 370 metri di profondità. Studiando le parti recuperate, nella parte destra del timone di coda dello Shuttle e nella fusoliera destra, sono evidenti stress termini, forti bruciature, fattori che mancano nel lato sinistro.
I detriti del razzo destro a propellente solido hanno evidenziato i punti di non tenuta, di uscita dei gas e del propellente che poi ha bruciato in volo destabilizzando l’assetto dello Shuttle. Quindi, danneggiamento fatale della struttura del grande serbatoio di idrogeno e ossigeno.


C’è un ritorno storico nelle date che hanno segnato lutti nelle missioni NASA (link). La fine di gennaio, ad anni di distanza, è quella che fa segnare molte vittime tra gli astronauti. Ho appena scritto dell’incidente durante le prove a terra dell’Apollo 1 (link all’articolo): 55 anni fa, 27 gennaio 1967, scoppiò un incendio nella capsula uccidendo i tre astronauti d’equipaggio.
Tornando all’incidente del 1986, quindi diciannove anni dopo quello del ’67, l’esplosione al lancio della missione STS-51-L smembrò lo Shuttle Challenger. I suoi pezzi separatamente tracciavano parabole fumanti come se dal punto dell’esplosione si fosse aperto in un fiore di fiamme e fumo. Frammenti grandi e piccoli iniziarono a curvare verso il suolo tirati in basso dalla gravità.




La rottura di quella maledetta guarnizione provocò l’uscita di fiamme dal razzo destro, tanto da provocare un cedimento nel grande serbatoio sotto la “pancia” dello Shuttle, contenitore pieno di idrogeno e ossigeno liquidi necessari ad alimentare i motori centrali della navetta: da qui la violenta e finale espulsione di gas e la deflagrazione.
Il successivo incidente mortale: primo febbraio 2003
Ed è sempre in un periodo dell’anno vicinissimo, il primo febbraio, ma del 2003, che la navetta Columbia andò distrutta. Questa volta non in fase di partenza, ma in quella di rientro: sembrava tutto avviato a felice conclusione, invece…
In breve, si era staccato e danneggiato parte del rivestimento protettivo dello Shuttle, quello che serviva per superare le enormi temperature dovute all’attrito con l’aria rientrando nell’atmosfera della Terra.
Cosa era accaduto?
Lo scudo termico della navetta, formato da specialissime mattonelle termoresistenti, era stato colpito da una parte del rivestimento in schiuma isolante del serbatoio esterno, un frammento che si staccò al momento del lancio.
In questo incidente del 2003 morirono i sette membri dell’equipaggio, il comandante Rick Husband, il pilota Willie McCool, la specialista di missione Kalpana Chawla, il responsabile del carico Michael Anderson, gli altri specialisti di missione Laurel Clark e David Brown, lo specialista del carico Ilan Ramon.