Disaffezione? Troppo poco. Sfiducia, lassismo, appiattimento, rinuncia: aspetti particolarmente deteriori della società liquida

Non esiste definizione migliore per la società italiana. La osservo con l’occhio clinico del giornalista da fine anni 80, ne analizzo i cambiamenti, i comportamenti, catalogo e confronto le differenze tra le generazioni che si susseguono. Disaffezione? Troppo poco. Sfiducia, lassismo, appiattimento, rinuncia: aspetti particolarmente deteriori della società liquida.

Il bilancio che ne traggo non è per nulla confortante, tanto che oggi, a volte, mi sembra di guardare a quanto accade come da una finestra o da una parete di vetro che separa i visitatori dagli ambienti in cui vengono delimitati gli habitat in alcuni bioparchi. È una realtà, quella odierna, che sento sempre più lontana da me, dal mio modo di provare tutto.
Sono sempre più un uomo di altri tempi.

Dopo il voto alle elezioni regionali e la spiccata non partecipazione della gente, ecco trovarmi a sbattere con il muso contro un altro grave sintomo che rafforza questa mia impressione.
Anzi, non è più impressione, ma certezza o quasi.

Forze vive e vitali ne esistono, non lo metto in dubbio, ma hanno sempre meno spazio, hanno sempre più ridotta cassa di risonanza e attrattiva. Non per colpa loro.

Mi ha colpito una definizione da vocabolario, strumento quest’ultimo che io, giornalista-operaio della parola e gli altri miei colleghi dovremmo tenere sempre presente come base del nostro voler raccontare:

società liquida loc. s.le f. Concezione sociologica che considera l’esperienza individuale e le relazioni sociali segnate da caratteristiche e strutture che si vanno decomponendo e ricomponendo rapidamente, in modo vacillante e incerto, fluido e volatile. ◆ Il noto sociologo Zygmunt Bauman sostiene che viviamo in una «società liquida», ma il suo modello non intende certo prendere alla lettera questa metafora, come sta avvenendo invece ora, nel momento in cui libri, registri e quaderni, con tutti i significati ch’essi rivestono, rischiano di finire nelle tubature di scarico. Trascinando con sé tante memorie del passato ma anche tante speranze del futuro. (Silvia Vegetti Finzi, Corriere della sera, 19 ottobre 2004, p. 49, Cronaca di Milano).
Una società «liquida» (secondo l’immagine felice – e fortunata – di Zygmunt Bauman). Dove i confini e i riferimenti sociali si perdono. I poteri si allontanano dal controllo delle persone. (Ilvo Diamanti, Repubblica, 4 giugno 2006, p. 1, Prima pagina).
Questa avvincente avventura richiede forte investimento di «umanità» e di «passione etica». Esse stanno a fondamento della cultura sportiva. La «questione etica» precede lo sport, convive con lo sport e dà vero compimento allo sport. E lungi dall’essere un’ipotesi di anime belle, è una necessità se intendiamo salvare lo sport, per oggi e per domani. È opinione diffusa che viviamo in una società «liquida», aperta e incerta. (Carlo Mazza, Avvenire, 13 ottobre 2007, p. 31, Sport).

Composto dal s. f. società e dall’agg. liquido, ricalcando l’espressione ingl. liquid society.

Con riferimento alle analisi compiute dal sociologo di origine polacca Zygmunt Bauman, autore dei saggi Liquid modernity, Cambridge (UK) 2000 (trad. it. di Sergio Minucci, Modernità liquida, Roma-Bari 2002) e Liquid love, Cambridge (UK) 2003 (trad. it. di Sergio Minucci, Amore liquido, Roma-Bari 2004).

V. anche comunità liquida.

Treccani – Neologismi

Non c’è dubbio che ci stiamo letteralmente liquefacendo, che stiamo perdendo forma in oceani di tentativi di darci nuove forme. I segni sono evidenti.
Del resto non sarebbero nate espressioni come società liquida se il fenomeno non fosse esistito.
Molti insistono sull’evoluzione della società, sulle sue nuove capacità espressive che sarebbero simbolo di ricchezza e libertà intellettuale, delle sue rinnovate manifestazioni… ma non è evoluzione: io spesso e volentieri utilizzerei l’espressione allo sbando.

Non solo.
Ritengo pure che oggi la libertà individuale si sia contratta, non si è ampliata, favorendo un fortissimo conformismo che non è quello inteso secondo i modelli degli anni 60, 70 e 80, ma è di segno opposto. Il conformismo oggi è essere contro per forza, senza essere coscienti contro cosa andare, far spiccare al massimo l’individualismo, magari senza avere una propria individualità definita, essere per forza “originali“, anche se senza contenuti e idee effettive, di rottura, anche senza essere veramente coscienti di cosa voler rompere, alla presunta ricerca di nuove frontiere d’esistenza, senza avere alcuna idea di dove guardare, o meglio, praticamente ciechi, andando a tentoni.

Si vuole essere, ma non si sa cosa.

Situazione grave perché molte lotte sacrosante, molte prese di posizione fondate e fondanti rischiano di essere annacquate, diluite in un mare di nulla tumultuoso e annegante, peggiore delle sabbie mobili.

Non prendete queste mie parole per espressioni dal sapore antico e retrogrado.
Vorrei piuttosto che si innescasse finalmente una profonda riflessione su quello che siamo, sui passi che tutti stiamo compiendo, sui sentieri di cambiamento che stiamo scegliendo.

Ho accennato prima all’ennesimo e ultimo simbolo di questa situazione, la desertificazione delle sezioni elettorali, l’abbandono di un valore fondante delle democrazie, quello della partecipazione grazie al voto.

Devo dirlo/scriverlo. L’inganno di un movimento, come quello stellato, che ci ha proposto un mondo dove una commessa di negozio, un meccanico, uno steward di uno stadio, possano diventare senatori, deputati, ministri, è già tramontata.
Sembrava una favola da social, perfetta, meravigliosa per inserirsi nel mare magnum del web dove chiunque può approdare al vertice di un Paese manovrando con efficienza leve di potere e cambiamento senza far propri i comportamenti dei cattivi politici del passato.

Ma la realtà supera qualsiasi illusione e cancella ogni racconto virtuale che si tenta di trasporre nel mondo concreto.
Tutti possono migliorare, ma occorre preparazione, studiare, avere esperienza prima di ricoprire alcune posizioni: non puoi metterti a studiare e a ottenere tutto questo sapere durante un mandato politico, altrimenti non rimane o rimane pochissimo tempo da dedicare all’amministrazione della cosa pubblica.

Cenerentola è una fiaba.

Quindi urne delle sezioni elettorali quasi per nulla frequentate dai cittadini. Per essere più precisi, rispetto alle precedenti votazioni regionali la partecipazione nel Lazio si è più che dimezzata, in Lombardia si è ridotta di circa il 45 per cento.

La colpa non è solo dei politici, basta con questa storia: oggi i membri della classe politica sono sì in gran parte inconsistenti, è vero, riescono persino a essere rinunciatari in fase di campagna elettorale quando sanno che gli avversari sono sicuramente diretti alla vittoria, quindi pochi e sconclusionati messaggi, ridottissimo investimento per la campagna (così il partito risparmia danari) e si lasciano vincere gli altri con ancora maggior vantaggio.
Politicamente suicida.
La gente non va a votare.

La classe politica esistente fino agli anni 90 non si sarebbe mai comportata così, avrebbe lottato anche contro i mulini a vento, anche con elezioni dall’esito scontato.

Però anche il cittadino ha grandissime colpe.

Prima colpa fra tutte è l’adagiarsi, essere rinunciatari, “tanto va sempre così, decidono loro, tutti corrotti, non cambia nulla“.
Poi il cittadino sembra riacquistare amor proprio, riprende vigore, rabbia, indignazione, torna combattivo ma lo fa solo nei social, diventa il guerriero dei social, l’esperto in politica, finanza, medicina, in scenari internazionali ed approvvigionamenti energetici.
A parole distribuisce colpi di clava su chiunque non concordi.

Ma la vita è reale.

Si deve partecipare attivamente.

Basta con le lamentazioni infinite e le indignazioni autoreferenziali, fine a se stesse e virtuali.
Ci fu qualcuno (Karl Marx) che in un passato non lontano si espresse con la frase, La religione è l’oppio dei popoli.

Senza volermi paragonare a personaggi storici di qualsivoglia tendenza ed effetto sulle cose umane, io oggi aggiornerei in, “I social sono l’oppio dei popoli.

Alzatevi dalle poltrone, sollevate gli sguardi dagli smartphone e dagli schermi di iPad e computer.

Ci stiamo liquefacendo senza reagire, senza essere parte attiva. La nostra mente sta colando via seguendo attraenti bagliori, foto sature di colori con visi digitalmente “valorizzati”, video colorati e strambi, complottismi e ovvietà scritte sul web e sui social.

In foto e in video di pochi secondi, stile Tik Tok od Onlyfans, oppure Facebook e Twitter, Instagram, ci autocondanniamo a ruoli eterni per mantenere e ampliare il nostro parco follower.

Siamo ballerini, pseudocomici, cantanti, corpi nudi in esposizione, affannati ricercatori di compagnia e visibilità, sociologi, siamo tutti influencer, pubblicitari, profondi pensatori. E lo siamo a qualsiasi età.

Siamo ingurgitatori (link) delle più strane, accattivanti e alla moda pietanze della nouvelle cuisine o tradizionale, cucine vegane, vegetariane, per amanti delle carni, con insetti, senza insetti, per celìaci, per intolleranti a varie cose… siamo sempre a bocca piena sorridente o con faccette buffe: in contemporanea parliamo a bocca piena proiettando sovente intorno a noi piccoli brandelli del materiale che abbiamo in bocca (dobbiamo far capire che ci divertiamo, che gustiamo quel cibo, oppure che ci fa schifo, nello stesso istante della masticazione) e per fortuna, aggiungerei, assistiamo a tutto questo dall’altra parte di uno schermo, non ne veniamo insozzati fisicamente (unico vantaggio della virtualità).

Siamo gli eterni viaggiatori all’estero e in Italia, alla scoperta di aspetti nascosti (veri o presunti inediti), a qualsiasi prezzo e distanza, eternamente stupefatti, con espressioni perennemente sognanti in solitaria esplorazione o abbracciati in coppia, oppure altrettanto eterni festeggianti in gruppo attorno al fuoco di notte in un deserto o annegati nel lusso di fantasmagoriche strutture ricettive.

Tanto per capirsi, da mezzo di comunicazione franca tra esseri umani, del puro riconoscerci, la virtualità si è travestita così tanto da non farci più ritrovare e da condizionare ogni nostro passo nella realtà.

Siamo Italiani, popolo di santi, poeti, navigatori e buffoni che dei fatti di casa nostra e della nostra società non ce ne frega un emerito ………… (riempire i puntini a piacere).

Oltretutto, caricando sul web tutte queste immagini di noi, preventivamente scattate, girate, provate, scelte, manipolate, chi è che va ancora a lavorare? Lo si trova il tempo per andare a lavorare?
Cos’altro rimane che possa essere benedetto da tanto nostro fervore?
Ma questa è un’altra storia.
È banalità che non si mostra sui social!

Buona vita a tutti.

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