Ibn Jubayr, poeta musulmano andaluso del XII secolo: naufragio nello Stretto di Messina, il viaggio nella Sicilia multiculturale di allora e il suo racconto

Immaginatevi nel XII secolo, ben 800 anni fa circa. Parte della Penisola Iberica è ancora saldamente in mano ai musulmani. Adesso cercate di immedesimarvi nella figura di un poeta ben noto all’epoca, personaggio che ebbe anche posizioni di potere e amministrativi. Sto scrivendo di Ibn Jubayr o Abū l-Ḥusayn Muḥammad ibn Aḥmad al-Kinānī (ﺍﺑﻦ ﺟﺒﻴﺮ), letterato musulmano che nei suoi viaggi, dopo un naufragio, si fermò in Sicilia amando questa terra per poi raccontarla.

Capitolo 6 dicembre 1184 – 4 gennaio 1185 – “[…] La mattina del primo dello stesso mese noi ci siam trovato di faccia, con gran piacere, il Monte di Fuoco, ossia il famoso vulcano di Sicilia. Così Iddio ci dia ricompensa maggiore, in contemplazione di quanto abbiamo sofferto.

[…] il vento ringagliardito, diè alla nave tale spinta che portolla di peso alla bocca dello Stretto, in sul far della notte. In questo Stretto il mare si restringe tanto che la distanza tra la Terraferma italiana e l’isola di Sicilia si riduce a sei (miglia), ed in un posto anco a tre miglia. Serrata in sì angusto spazio e forte incalzata, l’acqua cala con sì furiosa corrente da rassomigliarsi a quella dell’inondazione di Al Arim (la rottura dell’argine di Mareb nel Yaman risalente al secondo secolo dell’era volgare) e bolle come fosse in una caldaia posta sul fuoco.

[…] verso la mezzanotte della domenica tre di questo mese benedetto, arrivati presso la città di Messina dell’isola suddetta, levaronsi improvvisamente le grida de’ marinai: che il vento ci trasportava di forza all’una o all’altra spiaggia e che il legno correva a dare in secco.

Comanda il pilota di calar le vele, ma quella dell’albero che chiamiamo al ardinum (artimone) non volle venir giù […] Accortosi che i marinai non poteano, il pilota si mette con un coltello ad affrappare la vela a pezzo a pezzo, sperando di riuscire allo intento suo. Tra questo armeggio il legno toccò terra con la chiglia ed anco co’ suoi due timoni, che sono come le gambe su le quali si reggon le navi. Scoppia allora a bordo un grido spaventevole: e in vero ci sovrastava il gran caso, lo strappo che noi non potevamo risarcire, il corpo fatale contro cui non ci valeva il coraggio. Indi i Cristiani a tapinarsi disperatamente: i Musulmani a rassegnarsi tranquilli al decreto del Signore.

Già il vento e le onde assalivano il fianco della nave: spezzossi un timone. Il pilota gittò una delle àncore che avea, sperando potersi reggere su quella, e com’ei vide che non giovava, così troncò risoluto la gomena e lasciò l’àncora in mare.

Fatti certi che l’ora era venuta, ci levammo; preparammo gli animi alla morte”…

Alla fine, vicinissimi alla riva siciliana, tra urla dei bambini e delle donne, compreso un tentativo di far scivolare a mare una scialuppa, subito strappata e fatta a pezzi dalle onde, proprio quando ogni speranza sembrava sparita, ecco la salvezza.

All’alba iniziarono ad arrivare soccorsi grazie ad alcune imbarcazioni giunte da Messina: i cittadini avevano sentito i richiami di aiuto e si erano organizzati. Il mare sembrò aver reso meno violenta la sua morsa. A osservare la situazione, a sostenere l’organizzazione e a pagare i barcaioli incaricati al salvataggio, si presentò il Re normanno Guglielmo II di Sicilia. Per il poeta musulmano l’episodio rappresentò l’inizio della sua visita siciliana.

L’esperienza vissuta nel suo peregrinare Ibn Jubayr la racconta in una Riḥla, una sorta di relazione-racconto sul pellegrinaggio alla Mecca, opera che divenne uno dei grandi classici della letteratura musulmana.

Il poeta vi narrò principalmente le terre plasmate dalla presenza musulmana e lo fece con un linguaggio estremamente chiaro, non arzigogolato e non pomposo, un’immagine del tutto veritiera del Mediterraneo e delle terre orientali di quei tempi. Elemento che ne decretò il successo letterario.

Nell’opera spicca il suo percorso in Sicilia e la descrizione di Palermo, la capitale sicula che all’epoca, rispetto a oggi, aveva tracce ben più numerose del remoto dominio musulmano. Dell’Isola Ibn Jubayr fa un netto racconto sulla commistione arabo-normanna riflessa dall’ambiente sociale, culturale e monumentale.

Una parte molto interessante riguarda la descrizione della Corte di Re Guglielmo II di Sicilia (colui che fece edificare il Duomo di Monreale), la multiculturalità di quell’ambiente e del Paese, i paggi e le ancelle musulmane, senza mancare di raccontare il culto e i monumenti cristiani di Palermo, come la “chiesa dell’Antiocheno” – la Santa Maria dell’Ammiraglio -, ma anche la visione del “Palazzo Bianco del Re normanno a Messina, la grandissima importanza del porto messinese, i traffici da e verso l’africa tunisina dallo scalo trapanese e tanto altro ancora.

Sull’Etna, ammaliato dalla grandezza e potenza del vulcano: “[…] presenta anche una caratteristica singolare in quanto da alcuni anni un fuoco ne sgorga alla maniera dello ‘rottura della diga’. Non passa nulla che non brucia finché, venendo al mare, cavalca sulla sua superficie e poi si placa sotto di esso. Lodiamo l’Autore di tutte le cose per le sue meravigliose creazioni. Non c’è Dio all’infuori di Lui”.

“La più bella città della Sicilia, sede del Re, è detta dai Musulmani ‘Al Madinah (la città) e dai Cristiani Balarmuth (Palermo). Essa è il soggiorno [principale] de’ cittadini mussulmani, che vi tengono delle moschee, dei mercati loro propri e molti sobborghi.

[…] residenza di Re Guglielmo, è la maggiore e la più popolosa di tutte [le città di Sicilia] e Messina dopo di essa.

É singolare il Re di Sicilia per la sua buona condotta e perch’egli adopera molto i musulmani ed ha per paggi gli eunuchi [musulmani] i quali, o la più parte, celan sì la fede, ma stan fermi nella legge dell’Islam.

Il Re si fida molto ne’ Musulmani e riposa su di essi nelle sue faccende e nelle cose più gravi; a tal segno che il soprintendente della sua cucina è musulmano e ch’egli tiene uno stuolo di schiavi negri musulmani con un capitano di lor gente stessa. I suoi visir e i suoi hagib (ciambellani) son sempre scelti tra detti paggi; ch’egli n’ha grande numero, e son essi gli impiegati negli uffizi pubblici e nei servizi della Corte. Nelle persone loro poi si mostra lo splendor del Principato; avvegnaché sfoggino in vestimenta sontuose e in agili cavalli e che nessuno di loro manchi di codazzo, famiglia e clienti”.

Chi era Ibn Jubayr?

Ibn Jubayr, dipinto che ne ipotizza la figura

Nato a Valencia il primo settembre del 1145, Ibn Jubayr, musulmano andaluso, servì sotto gli Almohadi (الموَحِّدون) o Banū ʿAbd al-Muʾmin (بنو عبد المؤمن‎), dinastia berbera che dominò il Maghreb e la Spagna musulmana fino al 1269.

Può capitare a chiunque di fare qualche azione di cui non si va proprio fieri e anche Ibn Jubayr, considerando i precetti islamici, ne combinò una grossa. Esagerò nelle bevute di vino… e dovettero essere proprio gran bevute.

Così, nel 1183 si mise in viaggio e si imbarcò per iniziare un lungo pellegrinaggio verso La Mecca in modo da espiare per questo suo peccato purificandosi.

All’andata, l’impresa riuscì perfettamente o quasi. A Ceuta (سبتة‎, o Sabta), la punta del Nordafrica che si avvicina più alla Spagna, salì su una nave genovese e, da lì, via verso Oriente passando prima, velocemente, per la Sardegna, la Sicilia e Creta.

Capitolo dal 17 marzo 1183 – “[…] Tra le due terre dinanzi nominate, Sardegna e Sicilia, corrono a un di presso quattrocento miglia. Non avevamo costeggiata la Sicilia per duegento miglia e più, quando calato il vento, ci mettemmo a bordeggiare di faccia a quell’isola. Arrivati poi al vespro del venerdì, ventuno del detto mese, salpammo dal luogo dove s’era gittata l’àncora e allontanatici di terra in sul tramonto, il mattino di sabato ci trovammo a gran distanza dall’isola.

Ci apparve allora il vulcano, quel gran monte che si innalza al cielo. Era ammantato di neve. Ci fu detto che questo monte, in tempo sereno, si vede da più di cento miglia lontano”.

Giunto ad Alessandria d’Egitto litigò con veemenza con i doganieri ma, passato questo incidente di percorso, si inoltrò lungo il Paese del Nilo, giunse in Nubia, attraversò il Mar Rosso sbarcando in Arabia e, di lì, finalmente arrivò alla Città Santa araba.

Il peccato cancellato, lui purificato dalle preghiere, Ibn Jubayr iniziò a progettare il viaggio di ritorno.

La rotta scelta lo portò attraverso altre terre, prima fino Baghdad, Mosul, poi l’attraversamento del deserto della Siria per visitare Damasco dirigendosi di nuovo verso il Mediterraneo. Dopo, ad Acri – già alla fine del 1184 – si imbarcò su una nave. Anche questa volta era un vascello genovese.

Arrivato al centro del Mediterraneo, proprio nello Stretto di Messina, una tempesta distrusse l’imbarcazione ma, come descritto all’inizio, Ibn Jubayr si salvò: fu portato sulle rive siciliane della stessa Messina.

L’evento permise al poeta spagnolo-musulmano di poter visitare l’Isola lungo un percorso da Oriente a Occidente, lungo la parte settentrionale della Sicilia, quindi da Messina fino a Palermo e a Trapani.

Sulla Sicilia – “Frequente di città, villaggi e masserie; lunga sette e larga cinque giornate (di cammino). Quivi il monte del vulcano, da noi già ricordato; il quale per la sua altezza sterminata, porta, inverno e state, un mantello di nubi e un turbante di neve perenne.

Supera qualsivoglia descrizione la fertilità di quell’isola: basti sapere che la [si può dir] figliola della Spagna, per estensione del terreno coltivato, per feracità, e per abbondanza Copiosa è la Sicilia d’ogni produzione del suolo; molto feconda di frutte di varie specie e qualità: e pur vi stanziano gli adoratori delle croci; passeggiano su i monti e se la godono nelle pianure, accanto a’ Musulmani, i quali rimangono in possesso di loro beni stabili e di lor masserie.

[su Re Guglielmo II] “Possiede questo monarca de’ palagi magnifici e dei giardini deliziosi, massime nella detta metropoli del Reame. In Messina egli ha un palagio bianco come una colomba, il quale domina la spiaggia: [in esso] attendono ‘a servigi del Re molti paggi e ancelle […] Ei si rassomiglia ai re musulmani per l’uso di stare immerso nelle delizie del principato; non meno che per gli ordini legislativi, per le consuetudini, per la gradazione de’ suoi ottimati, la magnificenza della Corte e il lusso degli ornamenti.
Ha medici e astrologi ch’egli onora di molto.
[…] Un’altra cosa notevole che si narra di questo Principe e ch’ei sa leggere e scrivere l’arabico […] una volta, mentr’era scossa la Sicilia da forti tremuoti, questo politeista, andando attorno tutto spaventato per la sua reggia, non sentiva altro per ogni luogo se non che le voci delle donne e de’ paggi che porgean preci a Dio e al suo profeta. Al vedere il Re, sbigottiron tutti; ma ei li confortò dicendo: “Che ognun di voi invochi l’Essere ch’ei adora, e in cui crede””.

Solo quando Ibn Jubayr giunse a Trapani riprese la via del mare per dirigersi verso l’Andalusia tornando così a Granada nella primavera del 1185, due anni dopo la sua prima partenza dalla Spagna musulmana.

L’esperienza vissuta fu raccontata da Ibn Jubayr in una Riḥla, una sorta di relazione-racconto che divenne uno dei grandi classici della letteratura musulmana. Il poeta vi narrò principalmente le terre plasmate dalla presenza musulmana e lo fece con un linguaggio estremamente chiaro, non arzigogolato e non pomposo, un’immagine del tutto veritiera del Mediterraneo e delle terre orientali di quei tempi. Elemento che decretò il successo dell’opera.

Tempo dopo Ibn Jubayr tornò in Oriente partendo nel 1204. Non tornò più in territorio europeo. Morì ad Alessandria d’Egitto il 29 novembre del 1217.

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