Più una terra è stata ricca di storia, di incroci tra culture e di lingue appartenenti a diversi popoli, più ha accresciuto nei secoli e nei millenni il suo bagaglio di miti e leggende. La Sicilia ne custodisce tantissime, ricolme di storie che delineano la natura dell’Isola sin dai tempi più remoti, il carattere degli abitanti modellato dall’amalgama di civiltà e di trascorsi epocali. Tratto da www.grifeo.it dove ho adattato le storie e gli antichi miti a una mia versione narrativa (foto d’apertura, la Fontana di Artemide-Diana a Siracusa: particolare di Aretusa nella sua trasformazione in fonte d’acqua – immagine ©AngeloCampus)

Dei, animali fantastici, mostri, ninfe, giganti e titani, nella mitologia greca sono tutti presi nel vortice di gelosie, di vendette, si tuffano tra le onde di vincoli mortali dettati da triangoli amorosi, giochi di sangue e tutti portano inevitabilmente a punizioni eterne.
Fin dai tempi della Magna Grecia viene fuori quindi il ritratto di una Sicilia fatta di passioni, anche violente, dalle tinte forti, vivaci, in cui il sangue è ancora più rosso, caldo, in cui il fuoco brucia, consuma e incenerisce, l’acqua è fresca, quasi gelida, il sole splende, acceca, dona vita ma può inaridire, trasformare.
La Sicilia ha sete, la Sicilia ama, la Sicilia è vorace, la Sicilia è arte, la Sicilia vive con ardore e sogna dolcemente, sempre.
La storia di Aretusa
Per iniziare con un minimo di genealogia mitologica sui personaggi coinvolti in questa storia, Aretusa è figlia di Nereo, antico dio del mare (figlio di Ponto e di Gea) e di Doride a sua volta figlia dei titani Oceano e Teti. La giovane ninfa è amica della dea cacciatrice Artemide (per gli etruschi Artume/Aritimi/Artames e per la mitologia romana Diana). Questo per

Un giorno la divina fanciulla si sta bagnando nelle acque del fiume Alfeo e questo dio si innamora perdutamente di lei. Le insistenze del dio-fiume diventano pressanti, ma la passione non è proprio ricambiata, tanto che Aretusa decide di fuggire. Così la ninfa si nasconde nell’isola di Ortigia, quella che diventerà il cuore pulsante di Siracusa.
Per proteggerla dalla ricerca di Alfeo, Diana trasforma Aretusa in una fonte d’acqua dolce, proprio quella che da allora sgorga in un piccolo bacino della parte più antica della città siciliana.
Come divinità fluviale Alfeo non si arrende, si immerge sotto il mare Egeo e torna in superficie proprio davanti a Ortigia per ricongiungersi alle acque della fonte che una volta era la sua amata.

Tutta questa vicenda venne ideata dagli antichi greci per spiegare l’immersione sottoterra del percorso del fiume Alfeo, realmente esistente in piena Grecia. Da qui l’idea di questo filo d’amore epico che parallelamente tendeva a spiegare l’unione fra il paese ellenico e la Sicilia. La fonte d’acqua dolce che oggi si apre nel piccolo invaso di Ortigia, centro storico di Siracusa, porta appunto il nome di Fonte Aretusa.
Aci e Galatea
Come per la leggenda di Aretusa, anche in questa storia l’acqua ha un ruolo centrale, a riprova di come in Sicilia sia stata da sempre considerata come un bene prezioso, portatrice di vita, dotata di poteri e manifestazioni particolari.

Teatro della vicenda, l’area vulcanica e costiera dell’Etna, da sempre ricca di fonti come tutto il complesso territoriale della montagna. Protagonisti di questa storia tipica della Magna Grecia: Polifemo, ciclope innamorato; Aci, giovane e aitante pastore etneo; Galatea, una delle cinquanta ninfe del mare, le Nereidi, figlie di Nereo e Doride (anche qui coinvolti nelle peripezie di un’altra delle loro sfortunate figlie).
Aci, il pastorello, è bellissimo. Galatea ne è innamorata. Polifemo è innamorato di Galatea. Ecco quindi il triangolo dell’amore che non tarda a creare guai con l’aggiunta di un tocco di distruttiva gelosia. In un suo primo tentativo Polifemo cerca di adescare la sua ninfa preferita con il suono di un flauto (simbolo evidente di lussuria), ma la cosa non riesce.
La rabbia del gigante con un occhio solo cresce immediatamente, moltiplicata poco dopo dal fatto di sorprendere Galatea e Aci insieme.

Polifemo prende una roccia e la scaglia contro Aci, colpendolo (i ciclopi amano l’uso delle rocce come proiettili – una riprova è nell’Odissea con il bersaglio/Ulisse prescelto dai ciclopi in quell’epopea).
Il bel pastore è colpito a morte, ma Galatea in un ultimo tentativo di tenerlo in vita, trasforma il sangue del suo amato in acqua di sorgente. Aci diviene così un dio fluviale.
Oggi, fra Aci Reale e Aci Trezza, nel paese costiero di Capo Mulini esiste ancora una sorgente chiamata dai residenti “Il sangue di Aci”, nome scelto anche per la colorazione dei depositi lungo l’affioramento della fonte.
Da sottolineare che gli affioramenti di acque dolci in questo tratto di costa orientale della provincia catanese, sono così tante che hanno punti di sbocco anche sottomarini. Basta fare il bagno tuffandosi in mare. Il dio Aci, ex pastore, fa sentire la sua presenza con spinte verso l’alto di acqua particolarmente fredda e non salata proveniente da spaccature nel fondo marino. Il tutto a pochi metri dalle scogliere e a profondità raggiungibili facilmente in apnea.
In onore di Aci, nove centri di questa parte della Sicilia orientale portano il suffisso Aci (Aci Castello, Acitrezza, Acireale, Aci Bonaccorsi, Aci Sant’Antonio, Aci Catena, Aci San Filippo, Aci Platani, Aci Santa Lucia), proprio negli stessi luoghi dove, sempre secondo leggenda, Polifemo avrebbe buttato nove parti del corpo di Aci.
Anche il nome di Galatea viene citato spesso in questi luoghi, nelle denominazioni date ad alcune pizze servite nei ristoranti che si affacciano sui faraglioni di Acitrezza o di fronte al castello a picco sul mare di Aci Castello. Anche complessi residenziali di lusso, con tanto di propria scogliera marina, ne hanno adottato il nome: “Specchio di Galatea” tanto per citarne uno. Ma questa è un’altra storia…