Storie e leggende di Sicilia (12): Trapani, il “Raisi” Vito Lucchio e i pirati “turchi” barbareschi

Questa storia prende vita da un lungo periodo in Sicilia, un grappolo di secoli tra il 1500 e il 1800 quando le coste dell’Isola erano oggetto di razzie di pirati barbareschi con le loro flottiglie provenienti dalla Tunisia e dall’Algeria, guerrieri che, per brevità di definizione, i siciliani spesso etichettavano come “i turchi”. Uno dei protagonisti leggendari è Vito Lucchio, un pescatore di polpi nonché “Raisi” della mattanza dei tonni: immaginatevi la vicenda portata a cinque secoli fa e la sua avventura quando cadde nelle mani dei razziatori nordafricani.

I saccheggi dei “turchi” lungo le coste siciliane, italiane ed europee erano atroci: morti, feriti, case, chiese, palazzi dati alle fiamme, gente trascinata via dai musulmani e imprigionati per essere poi venduti nei mercati degli schiavi.

Tra 1500 e 1800 furono circa 1,25 milioni gli europei deportati nel Nord dell’Africa. Solo nel 1543 lungo la Penisola italiana sbarcarono circa 12.000 corsari barbareschi affamati di prede e di bottino, tanto da spingersi anche di una trentina di chilometri nell’entroterra pur di arraffare il massimo possibile.

Anche la tipica frase siciliana, “Sentirsi preso dai turchi” (e sue varianti-personalizzazioni) che sta a significare “entrare in confusione, non sapere cosa fare di fronte a un imprevisto, a un evento improvviso“, risale al XV secolo quando il moltiplicarsi degli sbarchi in Sicilia di pirati barbareschi dai porti di Libia, Algeria e Tunisia, creava terribili momenti di caos e distruzione.

La storia di cui vi narro fece parte di una raccolta di 300 tra leggente e storie siciliane radunate da Giuseppe Pitrè in quattro volumi (Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani) pubblicati nel 1875 in Lingua Siciliana.

A fondo pagina troverete proprio la versione in Siciliano di questa storia (quella riportata da Pitrè). La sua traduzione in Italiano l’ho adattata e fatta un po’ mia adottando anche parti di altre versioni, ma senza stravolgere nulla.

È una narrazione emblematica della vita di un tempo, dei pericoli che la gente correva lungo le coste siciliane portando avanti la vita di ogni giorno, delle difficoltà affrontate, della forza di volontà e del coraggio dei siciliani nell’affrontare momenti molto gravi e nel riaffermare la loro libertà e il loro legame con la terra natia e il mare.

La storia di Vito Lucchio

Un giorno Vito era a Capo San Teodoro, nell’area di Marsala, area amena anche oggi, con spiagge chiare, mare limpido, un luogo da favola. Lui pescatore valente di polpi ma anche Raisi, dedito alla pesca del tonno.

Il nostro protagonista ed eroe era sulla sua barca bello tranquillo, insieme al fratello, entrambi cullati da un mare sonnolento e luccicante, lo sciabordio accennato, quasi ipnotico.

Calma apparente.

All’improvviso i fratelli furono assaliti da una dozzina di “turchi” giunti con la loro imbarcazione. Dovevano difendersi, ma erano solo in due, Vito armato solo della sua fiocina. Non c’era altro di utile: nella loro barca avevano solo delle reti da pesca.

Gli assalitori, invece, erano dodici feroci corsari barbareschi, armati di spade e fucili.

I fratelli riuscirono a ferire qualcuno dei pirati, soprattutto Vito con la sua fiocina che ne colpì uno spargendone le budella a mare, un altro lo uccise, ma i due, stanchi, furono sopraffatti e legati.

Inevitabile.

I due sventurati furono bloccati con delle catene e, subito dopo, si trovarono issati, come fossero pesci nelle reti, a bordo del vascello barbaresco.

Da quel momento iniziò la navigazione verso l’Africa, in rotta verso Tunisi, giornate che sembravano non finire mai per i poveri prigionieri che potevano solo immaginare quale sorte orribile si sarebbe profilata al loro all’arrivo.

Tutto si svolse come da copione. Al porto di Tunisi furono sbarcati e allineati insieme ad altri prigionieri catturati in altri luoghi lungo le coste siciliane e mediterranee.

Il loro destino fu proprio la vendita come schiavi. Vito Lucchio e il fratello, catturati insieme, furono inseriti nello stesso lotto messo all’incanto, ma qui avvenne la separazione. Vito fu venduto insieme ad altri otto poveracci e portato via.

Il fratello rimase al mercato mentre si susseguivano le trattative fra altri compratori che volevano acquistare gli altri schiavi solo dopo aver esaminato muscolatura, mani, denti di ogni prigioniero.

Il primo gruppetto che comprendeva Vito Lucchio finì nella proprietà di un agricoltore tunisino, a oltre dieci miglia dalla costa. Proprio in quella fattoria africana i nuovi schiavi furono costretti ad arare, a coltivare e a curare i campi tra colpi di frusta e punizioni varie se non lavoravano di buona lena secondo il metro del loro padrone. Da schiavi non potevano trovare ristoro neppure nel cibo, scarso e scadente, insufficiente a sfamarli.

Sia per la sua giovane età che per carattere, Vito non demordeva: si osservava intorno per capire se poteva esserci una possibilità di fuga.

Non era da lui subire passivamente, lavorare nei campi dall’alba al tramonto, essere frustato e colpito durante la giornata, essere trattato come un animale, tornare a sera nel tugurio dove era tenuto con gli altri, mangiare quelle poche porcherie che gli venivano passate e cercare di dormire su un “grumo” di lurida paglia.

Il corpo segnato e lacerato in più punti, le ossa che iniziavano a spuntare dalla carne per le privazioni. Ormai erano passati quasi sette mesi e tutti gli schiavi davano e mostravano segni evidenti della mala vita che stavano passando.

Vito disse a quelli che lavoravano con lui: «Picciotti, volete venire con me? Se vi fidate vi porto con me».

«Zio Vito – risposero quelli – vi seguiamo» e si misero d’accordo.

Il primo tentativo di fuga

Tutto avvenne di notte, di domenica, quando di solito il padrone andava via chiudendo la fattoria. I guardiani avevano allentato i controlli, forse pensando che gli schiavi si fossero ormai rassegnati. Così Vito radunò alcuni compagni di sventura e fuggirono tutti.

Il problema fu che non conoscevano quelle terre, non sapevano con precisione che direzione prendere nonostante l’istinto da bravo pescatore dello stesso Vito, il suo senso dell’orientamento che li portava verso occidente. Così si trovarono a lambire una radura dove c’era un drappello di soldati musulmani. Consultarsi sottovoce fu un attimo: dovevano tornare indietro, riattraversare il percorso che già conoscevano, rientrare nella fattoria e ritentare in un’altra occasione.

Ce la fecero per il rotto della cuffia. Poco prima dell’alba erano di nuovo sui loro luridi pagliericci nella fattoria, così da far sembrare che non si fossero mai allontanati.

La fuga: secondo tentativo

Passò quasi una settimana. Bisognava attendere il momento propizio. Vito avvisò gli altri che nella notte successiva dovevano presentarsi in un punto della fattoria. Arrivò la serata, in nove arrivarono all’appuntamento, ma uno del gruppo non se la sentiva di tentare di nuovo la fuga.

Vito fu lapidario e risoluto: «Mi dispiace Ciccio, ma non per vuliriti male, ma non mi fidu». Così il compare che non voleva fuggire fu preso, legato e imbavagliato.

Poi il gruppo iniziò a fuggire tra i campi in direzione di un porticciolo di cui Vito era venuto a conoscenza: avrebbero trovato piccole imbarcazioni lì ormeggiate. Il percorso era lungo, quindi, quasi all’alba, non ci erano ancora arrivati. Dovettero nascondersi nel fitto di un piccolo bosco camminando in mezzo a un ruscello in modo da non lasciare tracce visibili. Fra gli alberi rimasero per far passare la mattinata e il pomeriggio.

Ripartirono quando era di nuovo buio anche se una bella luna rischiarava il paesaggio.

Raggiunsero la rada che era la loro meta.

Il ragionamento di Vito era semplice e logico: «I nostri aguzzini avranno pensato che noi ce ne stiamo andando al porto grande e non immagineranno mai che, invece, siamo arrivati qui dove ci sono solo poche barche più piccole. Prendere una di queste sarà facile assai».

L’occasione era pronta lì da cogliere. Un’imbarcazione adatta sembrava essere lì ad attenderli. Pochi i musulmani a fare la guardia. Bisognava agire fulmineamente, liberare la piccola nave dagli ormeggi, stendere le vele e salpare prima che i “turchi” se ne accorgessero in tempo per bloccarli.

Non era possibile passare per i camminamenti lungo i moli, cosi il gruppetto di fuggitivi si immerse in acqua per arrivare all’imbarcazione nuotando: i siciliani colsero di sorpresa i “turchi” di guardia mezzo addormentati, poveri sciocchi.

Il “turco” che dormiva in coperta si risvegliò: «Eh, per la barba di Maometto!», e prese la scimitarra. Vito si abbassò, lo disarmò e con la stessa scimitarra lo ammazzò impadronendosi pure della sua armatura.

Si risvegliarono gli altri turchi: «Per la barba di Maometto», così attaccarono con le scimitarre, ma Raisi Vito con quella che aveva preso al primo musulmano, contrattaccò come un fulmine tagliò loro la testa.

Vito fece tirare su l’ancora, mollare gli ormeggi e la nave salpò. Allontanatisi a quasi ad un miglio di distanza dalla rada, la barca fece un qualche movimento per effetto del mare e altri due musulmani, svegliatisi, uscirono da sotto coperta. Questi, quando videro tutta quella gente a bordo presero le scimitarre, ma Vito, come volle Gesù Cristo, li uccise tutti e due e ne rimasero tre: il proprietario della barca e altri due.

Al che venne fuori pure il padrone della barca che prese la pistola e sparò a Vito. Ma il nostro eroe scansò miracolosamente il colpo, si avventò con la scimitarra e ammazzò l’avversario. Ne rimasero soltanto due di sette che erano…

Per farla breve, i siciliani scampati alla schiavitù riuscirono a sopraffare tutti i musulmani nonostante quelli fossero armati. Dei sette “turchi” a bordo, i due rimasti furono fatti prigionieri.

L’inseguimento

Gli altri “turchi” presenti nel piccolo porto si accorsero di quanto stava avvenendo quando videro alzarsi le vele del piccolo vascello. Cercarono di reagire, di bloccare l’imbarcazione, ma era troppo tardi. Così spedirono un messaggero a Tunisi.

Mamma mia come reagì male il Sultano! Ordinò alla nave più veloce della sua flotta di inseguire il vascello degli schiavi fuggitivi. Nel frattempo, fece preparare un enorme calderone di olio bollente dove, una volta catturati, intendeva buttare Vito e i suoi compagni: per questo affronto i siciliani dovevano morire in modo atroce.

Immaginatevi adesso l’inseguimento, il vascello dei fuggitivi che si allontanava dall’Africa e la nave della flotta tunisina che la braccava. L’esperienza di Vito Lucchio come marinaio e pescatore fu preziosa per non far avvicinare troppo i tunisini. Messo saldo al timone, il nostro protagonista impartiva ordini agli altri per far catturare alle vele ogni briciola della forza del vento.

Due giorni e due notti, la nave barbaresca tallonava quella degli ex schiavi cristiani. Poi una tempesta notturna che avrebbe potuto travolgere tutti e farli finire in fondo al mare. Però il pescatore siciliano non mollò un attimo il timone, seppe dirigere il suo vascello in modo tale da salvarsi tra ondate enormi e forti venti, scrosci di pioggia e fulmini. La tempesta fu vinta.

La mattina dopo, all’alba, Vito e i suoi compagni d’avventura erano finalmente in vista delle coste siciliane, nell’area di Mazara del Vallo.

Dietro di loro però riemerse anche la velocissima e armata nave degli inseguitori: anche lei aveva superato la tempesta.

Alla vista dei barbareschi nella nave del Sultano, i due prigionieri “turchi” nell’imbarcazione dei Vito e dei suoi compagni, riuscirono a liberarsi. Tentarono di infilarsi nella stiva, forse volevano scendere e sfondare la chiglia della nave, danneggiarla così da fermarla e farla raggiungere dai tunisini prima che si avvicinasse troppo a Mazara.

Per fortuna dei fuggiaschi, la gente e i pescatori della città siciliana si erano già accorti di tutto. Furono mandate delle imbarcazioni con soldati del Vicerè di Sicilia. L’impresa riuscì. I fuggitivi riuscirono a sbarcare nel porto di Mazara. Sbarcarono, ben legati, anche i due tunisini che avevano tentato di danneggiare l’imbarcazione, ma subito bloccati dai compagni di Vito.

Fu gran festa, la gente accolse tutti con giubilo, mentre i due prigionieri “turchi” furono utilizzati per uno scambio molto utile a Vito: seguendo l’usanza di allora che stabiliva la liberazione di un siciliano per ogni due tunisini riconsegnati, il nostro eroe ottenne poi anche la liberazione del fratello.

Ràisi Vitu (versione in Lingua Siciliana)

A tempu ca li Turchi pigghiavanu a li Ciciliani priciuneri, cc’era un tali di Vitu Lùcchiu ch’era purpajolu.

Si truvau ‘nta la praja di S. Todòru ‘una barchitta turca p’assartari a chiss’ornu e a sò frati cu dudici ornini: Raisi Vitu comu si vitti assartari, pigghia la fiscina e nni Incoccia unu, e cci fa nèsciri tutti li vudedda a mari. Jetta ‘n’atra fiscinata e nn’afferra n’àutru: e chist’omu senz’essiri carpitu!

Jetta arrè, e un’ammazza n’àutru: e poi n’àutru.

Stancau. fu pigghiatu priciuneri, e lu purtàru ‘n Tunisi, ‘nsèrnmula cu sò fratellu.

Coma junciu, lu purtaru a vinniri Vinni un mircanti, e si ricattau chiss’omini, e si li purtau a campagna, deci, undici miggliia fora tirrenu, ‘vicinu di spiaggia, e Ii misi a travagghiari.

Erinu sei, setti misi chi travagghiavanu chisti frati; ‘na jurnata Vitu cci dissi a chiddi chì travagghiavanu cu iddu: «Picciotti, cci vuliti véniri cu mia ? Si viatri vi fidati, io vi porta cu mia’».

«Zu Vitu mio – cci dissiru tutti – cci vinemu». E fòru tutti d’accordu.

La Duminica lu patruni li firmava e niscia. ‘Nca, comu lu vittiru fora, ‘sceru tutti e si nni fujeru. Ma, puvireddi, a certa puntu ‘un pòttiru fari nenti: fòru attuppali di li Turchi, e si nni jeru pi sò casa a travagghiari a la solitu.

Lu ‘nnumani turnau lu mircanti, e li truvau chi travagghiavanu. All’otto jorna vinennu, rivucò arre’ di tutti otto jirisinni di l’ottu mancau unu ca nun vosi fùijri. Lu pigghiaru e cci misiru lu ‘uccàggliiu ‘mmucca, e fujeru pi sò via, a praja.

Vittiru la varca bella pronta e li Turchi durmianu: cu’ a basciu, e cu ‘n cuverta coma tanti lolliri. Si jetta a mari Raisi Vitu cu li gammi arzati, e acchiana a bordu; chiamau a tutti cu signu, e li feci acchianari tutti a unu a unu.

Quannu fòru tutti ‘cchianati s’arruspigghiau ‘n turcu di ‘n cuverta: «Eh pi Maurnettumilia!» e pigghiau lu tagànu’.

Vitu si ‘nfila di sutta, e cu lu tagànu dì stu turcu l’ammazza e si pigghitia l’armatura.

Li dogghi addumaru; s’ arruspigghiaru l’àutri: «Eh pi Maumettumilia!» Tiranu lu tagànu: l’àutru cci leva lu tagànu, e cci tagghia la testa.

Li Turchi erano setti; di setti nn’arristaru cincu, e durmianu, ancora.

Sarpau Vitu l’ àncura e fici vela. Quannu fóru quasi un migghiu a mari, la varca si musiau e nisceru ddui. Quannu vittiru aggenti assai, tiraru tuttidui lu tagànu, e Vitu, comu vosi Gesù Cristu, a tuttidui l’aggiuccau’: e nn’arristaru tri, lu patruni dì la varca, e n’àutrì duì.

Nesci lu patruni dì la varca; pigghia la pistola e tagànu, e spara a Raisi Vitu.

Iddu scansau; jetta ‘na taganata e si lu leva di ‘mmenzu; e nn’arristaru dui suli, dí setti…

Vela! pi ‘n Trapani.

Si sappi chi ssa varca fu arrubhata. Lu Re Turcu, ordini: «‘Na quadara cu l’ogghiu; si si pigghia ssu birbanti, nna quadara cu l’ogghiu…».

‘Na scuna apposta fatta di lu Re; parti; la varca l’appi a vista.

Ddi dui turchi d’abbasciu avianu la ‘ntinzioni di sfunnari la varca pi falli jirì ‘n funnu. Scìnni Raisi Vitu: «E Senza fidi cani! Maumettumilia!» a e duna a li Turchi.

Assummannu ‘n cuverta vidi la scuna turca pi dappressu. «Curri, crrri!».

Lu puvireddu ‘un putía cchiui assicutatu seinpri di sta scuna chi cci java di fittu di fittu.

S’arridduciu finu a Mazzàra. Ddà scinni; Sanità: ‘n quarantina. Cc’eranu li dui turchi.

Tannu cu’ dava dui turchi priciuneri, avía un cristiana ‘n curnpensu. Cc’era sò frati; Rasi Vitu fici lu cànciu; cci detti a Mazzàra li turchi, e si pigghiau a sò frati. E chistu è lu fattu di lu valurusu Rasi Vitu Lnechiu. Trapani ‘.

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3 commenti Aggiungi il tuo

  1. Alessandro Gianesini ha detto:

    Una bella storia, senza dubbio.
    I “turchi” erano così detti anche in altri porti e altre regioni, se non ricordo male.

    PS: Ovviamente non mi sono nemmeno azzardato a leggere la versione in lingua! 😀

    Piace a 1 persona

    1. Giuseppe Grifeo ha detto:

      Per curiosità provati, anche se so bene che ne capirai solo una frazione. Potrai far risalire i significati solo confrontando col testo in italiano. Oltretutto, è siciliano del XVIII-XIX secolo, con molte diversità da quello attuale

      Piace a 1 persona

      1. Alessandro Gianesini ha detto:

        👍🏼

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