Il generale Nakhtmin e la moglie Mutnodjmet, membri di alto livello alla Corte del faraone Tutankhamon, caduti in disgrazia diversi anni dopo

Sembra che siano precipitati nel meccanismo di quella che era la tipica damnatio memoriae egizia: le loro rappresentazioni danneggiate o distrutte. Sono Nakhtmin (Min è vittorioso) e la moglie Mutnodjmet, membri di alto livello e, forse, di sangue reale alla Corte egizia dei faraoni Tutankhamon (Vita di Amon) e Ay. Nella parte conclusiva del regno di quest’ultimo, caddero in disgrazia e scomparvero.

Sottolineo che alla nobildonna ho voluto dare il nome ritenuto altamente probabile dagli archeologi. Non potevo riferirmi a lei solo con un pronome o con “moglie di“. Per i danni subiti dal gruppo scultoreo che rappresentava i coniugi e per la mancanza di ferrei altri riferimenti, non esistono sicure conferme sul nome di questa nobildonna egizia.

Tanto per inquadrare il periodo, sottolineo che il faraone Tutankhamon regnò dal 1332 al 1323 a.C. morendo giovanissimo, all’improvviso, con ovvie conseguenze sulla corretta prosecuzione della discendenza Reale. La tomba di questo re, come è noto, fu ritrovata quasi intatta da Howard Carter nel 1922, rivelando tesori inestimabili. Ricchezze che lasciarono immaginare l’immensità dei corredi funerari racchiusi nei sepolcri di grandissimi faraoni come Ramses II o Tuthmosis III, solo per citarne un paio.

I titoli ufficiali di Nakhtmin erano roboanti, di primo livello, qualificandolo tra i primissimi dignitari: Grande sorvegliante delle truppe, sorvegliante delle truppe del signore delle due terre, il vero servitore che giova al suo signore, lo scriba del re, il servitore amato dal suo signore, il portatore di ventagli sul lato destro del re, il servo che fa vivere il nome del suo signore.

Alcune titolazioni possono sembrare strane a noi così lontani nel tempo, a circa 3400 anni di distanza e al di fuori delle usanze e dei protocolli di quella civiltà. Però indicavano con precisione la posizione di una persona alla Corte Reale e le sue funzioni.

Del resto il generale Nakhtmin aveva (forse) sangue reale nelle vene, magari figlio dello stesso faraone Ay (Kheper – diviene/sorge – Kheperu Ra – Signore delle forme è Ra Ay) che prese il potere alla morte di Tutankhamon. Ma quello di Ay fu un regno di transito, di soli quattro anni.

Subito dopo sul trono sedette il generale Horemheb (Horus è in giubilo), anch’egli un generale, l’ultimo sovrano della XVIII Dinastia, sempre che si voglia affibbiarlo a una dinastia: io lo considererei “solo” un regnante-cardine tra la vecchia e la successiva dinastia. Fu vero e spietato attuatore della repressione contro l’eresia di Aton, usurpatore di molte opere di Tutankhamon e Ay sovrapponendo il suo nome a quello dei due predecessori. Demolì molte opere e rappresentazioni di Akhenaton, il Re eretico e della di lui moglie Nefertiti, distruggendo la capitale che l’atoniano si era fatto costruire.

Horemheb morì senza eredi. Gli succedette il suo visir che assunse il nome Reale di Ramses I, fondatore della XIX Dinastia dei ramessidi.

Accadde di tutto in quegli anni di passaggio anche politico.

Era il momento del ritorno dell’Egitto faraonico alla predominanza del Pantheon tradizionale con il dio Amon al vertice. Il potente clero di Amon a Tebe tornò a spadroneggiare dopo la precedente eresia Atoniana che tanto somigliava a una sorta di prova verso il monoteismo.

Come anticipato poco prima, monumenti, templi, città e statue degli “eretici” e dei loro simpatizzanti-parenti, furono distrutti o riutilizzati apponendovi i nomi dei nuovi sovrani e dei funzionari fedeli a quella che definirei come un’antica controriforma.

Probabilmente il generale Nakhtmin e la moglie Mutnodjmet si trovarono a malpartito proprio in questa fase di rigurgito politico-religioso.

Forse fu sotto il più duro attuatore della controriforma, Horemheb, che furono distrutte le loro effigi.

Cosa raccontano i resti della scultura che ritrae la nobile coppia

Il gruppo scultoreo dei due coniugi è stato danneggiato e colpito volutamente, fatto a pezzi, tanto che di Nakhtmin è rimasta solo la testa con frammenti delle spalle. Il viso sembra colpito a martellate, soprattutto la parte bassa con distacco di mento e mascella.

La figura della nobile moglie è ancora intera dalla testa alle cosce, ma non indenne. Le sembianze hanno però conservato tutto il loro fascino e l’eleganza.

Le espressioni dei due visi sembrano essere improntate a solenne tristezza. Una scelta artistica profetica?

Lei appare splendida, anche se la scultura è stata colpita lungo il naso, la bocca, il mento e, in parte, sugli occhi (il viso di lui è in condizioni peggiori) come da tipica e rituale dannazione nella sfera del ricordo e dell’aldilà.

Separati dalla morte, spezzati anche nella loro rappresentazione che originariamente li vedeva insieme.

Basta mettersi davanti a quel che rimane dei frammenti per accorgersi come la raffigurazione della donna sia tra le più elegantemente scolpite dell’epoca. Lo stile richiama molto il periodo amarniano (quello “eretico”).

Lo scultore ha modellato la pietra di calcare ritraendo lei che indossa un tipico abito di lino fine, aderente, plissettato, che doveva essere trasparente (la scultura dà l’effetto di far trasparire le forme e l’ombelico sottostanti alla veste).

Mutnodjmet porta sul capo una solenne parrucca con in cima una fascia doppia con petali di loto e un intero fiore di loto al centro, in corrispondenza della fronte, tipico per le donne dell’Antico Egitto.

Nella mano sinistra la principessa tiene una collana Menat, oggetto fatto di perline con un contrappeso che, nella vita vera, era in bronzo o in faïence (maiolica vetrosa). L’oggetto era associato alla dea Hathor: la collana veniva impugnata dalla parte del contrappeso e si facevano scuotere le perline, come fosse un sonaglio o un sistro, per invocare la dea; le perline potevano essere di materiale diverso, in bronzo o rame, vetro, agata, corniola, lapislazzuli e turchesi; la collana poteva essere indossata infilandola dalla testa e adagiandola sulle spalle, solitamente col contrappeso che scendeva indietro, tra le scapole, facendo così aderire le linee di perline al collo.

Sul retro della scultura una superficie piatta reca geroglifici incisi: descrivono i titoli di del marito di Mutnodjmet. Purtroppo manca tutta la parte descrittiva che era in corrispondenza delle spalle e del corpo di lui.

Nakhtmin e Mutnodjmet, una fine improvvisa

Nakhtmin era descritto anche come “principe ereditario” (jrj-pꜥt) e “figlio del re” (zꜣ-nzw), fattori che farebbero riferimento al faraone Ay. Spesso però il titolo di jrj-pꜥt era concesso a titolo onorifico, non indicava una sicura discendenza, ma altissima considerazione. Questo punto, a meno di nuove scoperte sul caso, rimarrà nell’incertezza.

Nakhtmin morì o in qualche modo sparì dalle scene prima della fine del breve regno di Ay. Anche per questo, probabilmente, il potere assoluto e il trono furono presi dal generale Horemheb.

Per quanto riguarda Mutnodjmet, anche di lei si perse ogni traccia.

All’improvviso, di nessuno dei due si trova più una sola citazione in alcun documento o iscrizione.


In quel momento storico si concluse una Dinastia, la XVIII, che diede vita alla più grande estensione politica dell’Antico Egitto grazie alla spinta propulsiva di molti regnanti e a uno dei suoi componenti, un grande conquistatore e stratega come lo era suo nonno.

Mi riferisco al faraone Tuthmosis III, regnante per quasi 54 anni, sovrano che sconfisse ogni potenza confinante e dominò militarmente dal Sud, alla quarta cateratta del Nilo in piena Nubia (in corrispondenza dell’antica città di Napata, nell’attuale Deserto del Manasir, a nord della città di Karima tra rocce di granito), fino alla Mesopotamia e oltre l’Eufrate (prese l’antica regione di Karkemiš tra Turchia e Siria) riducendo all’obbedienza pure Aleppo, giungendo fino alla conquista del Regno di Nii-Nya o Nye, in Siria settentrionale.

Non pensate però che fosse un impero tradizionale: era più simile a un commonwealth britannico. Ma questa è un’altra storia…

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