“De la mia disïanza”, “Poi ch’a voi piace, amore”… parole dello Stupor Mundi

Tra i poeti della Scuola Siciliana o Scuola poetica siciliana, in pieno XIII secolo, c’era il loro “primo motore”, il mecenate per eccellenza, l’Imperatore Federico II di Svevia, lo “Stupor Mundi” che amò cantare proprio l’Amore. Scuola poetica che diede vita alla prima produzione lirica in volgare italiano. Arte letteraria che ho già decantato due volte con Jacopo da Lentini grazie alle sue “Amore è un desio che ven da’ core” (link) e a Meravigliosamente” (link).

L’Imperatore Federico II e il suo falcone, dal De arte venandi cum avibusL’arte di cacciare con gli uccelli, manoscritto del XIII secolo conservato nella Biblioteca Vaticana, Roma

Queste che ho scelto e che inserisco più in basso sono “De la mia disïanza” e “Poi ch’a voi piace, amore”, composte dallo stesso Sovrano, uomo di Lettere e di grande ingegno, legislatore, stratega, attento alle arti, fautore di un Regno splendido, quello di Sicilia che fu esempio della fusione di menti, usanze, arti, senza distinzioni di razze, religioni, provenienze, culture.

Una stupefacente unione di civiltà.

“De la mia disïanza”, versione riportata da “Rimatori della scuola siciliana” a cura di Bruno Panvini (nato nel 1923)

De la mia disïanza
c’ò penato ad avire,
mi fa sbaldire – poi ch’i’ n’ò ragione,
chè m’à data fermanza
com’io possa compire
[ lu meu placire ] – senza ogne cagione,
a la stagione – ch’io l’averò [‘n] possanza.
Senza fallanza – voglio la persone,
per cui cagione – faccio mo’ membranza.

A tut[t]ora membrando
de lo dolze diletto
ched io aspetto, – sonne alegro e gaudente.
Vaio tanto tardando,
chè paura mi metto
ed ò sospetto – de la mala gente,
che per neiente – vanno disturbando
e rampognando – chi ama lealmente;
ond’io sovente – vado sospirando.
Sospiro e sto ’[n] rancura;
ch’io son sì disioso
e pauroso – mi face penare.

Ma tanto m’asicura
lo suo viso amoroso,
e lo gioioso – riso e lo sguardare
e lo parlare – di quella criatura,
che per paura – mi face penare
e dimorare: – tant’è fine e pura.
Tanto è sagia e cortise,
no creco che pensasse,
né distornasse – di ciò che m’à impromiso.

Da la ria gente aprise
da lor non si stornasse,
che mi tornasse – a danno chi gli ò offiso,
e ben mi à miso – [ . . . -ise]
[ . . . -ise] – in foco, ciò m’è aviso,
che lo bel viso – lo cor m’adivise.
Diviso m’à lo core
e lo corpo à ’n balìa;
tienmi e mi lia – forte incatenato.
La fiore d’ogne fiore
prego per cortesia,
che più non sia – lo suo detto fallato,
né disturbato – per inizadore,
né suo valore – non sia menovato,
né rabassato – per altro amadore.

Poi ch’a voi piace, amore”, versione somigliante a quella dal “The Oxford book of Italian verse” di St. John Welles Lucas-Lucas, poeta inglese (1879 – 1934)

Poi ch’a voi piace, amore – Poiché ti piace Amore,
Che eo deggia trovare,
Farò onne mia possanza,
Ch’io vegna a compimento.
Dato aggio lo mio core
In voi, Madonna, amare,
E tutta mia speranza
In vostro piaccimento;
E non mi partiraggio
Da voi, Donna valente,
Cheo v’Amo dolcemente
E piace a voi ch’eo aggia intendimento
Valimento mi date, Donna fina;
Chè lo meo core adesso a voi s’inchina.

S’eo ‘nchino, ragion n’aggio
Di sì amoroso bene;
Che spero e vo sperando
Che ancora deggio avere
Allegro meo coraggio,
e tutta la mia speme.
Fui dato in voi amando
Ed in vostro volere:
E veggio li sembianti
Di voi chiarita spera,
Ch’aspetto gioia intera;
Ed ho fidanza che lo meo servère
Aggia a piacere voi, che siete fiore,
Sor l’altre donne e avete più valore.

Valor sor l’altre avete,
E tutta canoscenza
Null’uom non poria
Vostro pregio contare;
Di tanto bella siete.
Secondo mia credenza
Non è donna, che sia
Alta, sì bella pare;
Né ch’aggia insegnamento
Di voi Donna sovrana.
La vostra cera umana
Mi dè conforto, e facemi allegrare.
Allegrar mi posso, Donna mia
Più conto mi ne tegno tuttavia

Poi ch’a voi piace, amore”, versione riportata da “Rimatori della scuola siciliana” a cura di Bruno Panvini (nato nel 1923)

Poi ch’a voi piace, amore,
che eo degia trovare,
faronde mia possanza
ch’io vegna a compimento.
Dat’ agio lo meo core
in voi, madonna, amare,
e tutta mia speranza
in vostro piacimento;
e non mi partiragio
da voi, donna valente,
ch’eo v’amo dolzemente,
e piace a voi ch’eo agia intendimento.
Valimento – mi date, donna fina,
chè lo meo core adesso a voi si ‘nchina.

S’io inchino, rason agio
di sì amoroso bene,
ca spero e vo sperando
c’ancora deio avire
allegro meo coragio;
e tutta la mia spene,
fu data in voi amando
ed in vostro piacire;
e veio li sembianti
di voi, chiarita spera,
ca spero gioia intera
ed ò fidanza ne lo meo servire
a piacire – di voi che siete fiore
sor l’altre donn’ e avete più valore.

Valor sor l’altre avete
e tutta caunoscenza,
ca null’omo por[r]ia
vostro pregio contare,
che tanto bella sete!
Secondo mia credenza
non è donna che sia
alta, sì bella, pare,
nè c’agia insegnamento
‘nver voi, donna sovrana.
La vostra ciera umana
mi dà conforto e facemi alegrare:
s’eo pregiare – vi posso, donna mia,
più conto mi ne tegno tuttavia.
A tutt[t]or vegio e sento,
ed ònne gra[n] ragione,
ch’Amore mi consenti
voi, gentil criatura.
Già mai non n’ò abento,
vostra bella fazone
cotant’ à valimenti.
Per vo’ son fresco ognura;
a l[o] sole riguardo
lo vostro bello viso,
che m’à d’amore priso,
e tegnol[o]mi in gran bonaventura.
Preio à tuttura – chi al buon segnore crede
però son dato a la vostra merzede.
Merzè pietosa agiate
di meve, gentil cosa,
chè tut[t]o il mio disio
[ . . . . -ente];
e certo ben sacc[i]ate,
alente più che rosa,
che ciò ch’io più golio
è voi veder sovente,
la vostra dolze vista,
a cui sono ublicato,
core e corp’ ò donato.
A[l]ora ch’io vi vidi primamente,
mantenente – fui in vostro podere,
che altra donna mai non voglio avere.

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