Ora non ricordo con precisione, ma credo fosse il 1996. Il testo che qui inserisco riguarda una mia intervista fatta a Pupella Maggio nella sua casa romana di via Valsavaranche. La scelta di abitare a Roma e in questa porzione della metropoli fu dettata anche dal fatto che i De Filippo avevano preso casa tra Nomentana e Salaria: il più vicino era Peppino De Filippo che si trovava in un’elegante condominio dal design ricercato, poco distante, sulla Nomentana (al numero 761) nel quartiere Talenti, a breve distanza di quelli che erano i Cinestudi della Dear Film, oggi Centro Rai.
Sulla vicina via Ettore Romagnoli, quasi a ridosso di piazza Talenti, aveva casa Corrado Mantoni. Oppure Ennio Flaiano, che risiedeva nella parte più datata di Monte Sacro, in via Montecristo 6, traversa di viale Adriatico. Citandone solo qualcun altro, qui abitarono pure Rino Gaetano, Gigi Proietti, Gianni Agus, Carlo Verdone. Invece Eduardo De Filippo aveva casa su via Aquileia 16, traversa di viale Gorizia, a brevissima distanza dalla Nomentana, casa poi abitata da Luca De Filippo dopo la morte del padre.


Pupella Maggio era all’anagrafe Giustina Maria Maggio, nata a Napoli il 24 aprile 1910 e vissuta fino all’8 dicembre 1999 in quel di Roma.
Incontrarla fu una delle esperienze più divertenti e appaganti, un momento che espresse accoglienza e calore tipico della purezza meridionale. Fui accolto da una marea di statuette raffiguranti Pulcinella, prevalentemente in ceramica: erano esposti ovunque, mi osservavano e mi sorridevano da tante mensole e vetrine che erano collocate dall’ingresso al vicino salone, oltre che in altri ambienti.
Donna intelligentissima Pupella, spiritosa, molto acuta.
L’intervista fluì da sé.
Questo testo rappresenta solo una parte di quello che ci raccontammo e, soprattutto, di quello che lei raccontò a me. Parlammo per ore, mi raccontò persino di come alla residenza Grifeo di Napoli, la sua famiglia e lei ragazza, andavano al teatro annesso per le loro rappresentazioni.
Un incontro indimenticabile.


L’intervista di 26 anni fa
di Giuseppe Grifeo
Lo scorso otto marzo si è celebrata la “Festa della Donna” e proprio in occasione di tale ricorrenza ho voluto incontrare Giustina Pupella Maggio, artista che ha segnato per sempre il panorama culturale nazionale.
Pupella ha visto la luce a Napoli, città che è sempre stata il crogiolo naturale di un’umanità semplice e difficile, fantasiosa e terrena, insomma di quella gente del Sud che ha fatto un’arte del duro compito di vivere.
La madre di Pupella apparteneva ad una famiglia di artisti del Circo “Carro di Tespi” (trapezisti, contorsionisti, ecc.), mentre il padre era inizialmente barbiere, attività poi lasciata per il canto, il teatro debuttando a 20 anni sul palcoscenico del Teatro Rossini.
La tipica fantasia dell’uomo meridionale e, nello specifico, del napoletano, sta tutta in un racconto che Pupella fa dei suoi nonni.
“Mio nonno faceva ballare le galline. Ci aveva una gabbia a due piani: uno di zinco, su cui stavano le galline e uno più basso di stagnola. Tra ‘sti due piani metteva uno ‘spirito sintetico’ (alcol); l’accendeva, le galline si bruciavano e sembrava che ballassero, Quando i piedi erano proprio bruciati, se le mangiavano. Poi faceva le pillole per la tosse. Aveva una capra che quando faceva i suoi bisogni, faceva tutte ‘sti pallottole. Mio nonno prendeva lo zucchero vanigliato e ve lo cospargeva sopra. Il tutto finiva nelle scatolette di metallo delle pastiglie Valda su cui aveva appiccicato le targhette ‘pastiglie per la tosse’. E ‘sti ‘cafuni se accattavano”.


Pupella ha recitato a lungo con Eduardo De Filippo, il quale aveva visto in lei la naturale compagna della sua avventura teatrale. Sarebbe del tutto inadeguato arrogarsi il compito di raccontarne, seppur brevemente, la vita, quindi è meglio dare immediatamente spazio alle parole della signora Maggio:
Giuseppe Grifeo – All’età di un anno, ne “La Pupa Movibile”, farsa messa in scena da suo padre Domenico Maggio o Mimì, lei ha il primo contatto con il palcoscenico, in quanto fu utilizzata al posto della bambola di pezza che solitamente occupava la culla posta sul palcoscenico. Ripensando alla sua lunga carriera teatrale, ai sacrifici fatti per andare avanti, quali sono stati i momenti più importanti di questa vita spesa per l’arte?
Pupella Maggio – Guarda Giuseppe, ho fatto teatro, non come si fa adesso, con le “tette”. Mi è venuto tutto bene, non so come. Poi nel ’54 mi chiamò Eduardo e da lì è cominciato tutto. Più che altro si vedeva la possibilità del lavoro. Cosi sono andata avanti e, grazie a Dio, ho vissuto del lavoro mio. Non ho mai avuto cose prese aldilà del lavoro. Moltissimi anni dopo ebbi quest’incidente, subendo la frattura delle costole e di un omero e proprio nel momento di crepare in macchina ho pensalo: “è finita”. Sai si viaggiava sempre in auto, si facevano ‘sti debutti, ‘ste cose, quindi mi sono detta “basta”. Oggi faccio qualcosa così, sporadicamente, come è stato per il festival insieme a Maurizio Costanzo. Ripensando ad epoche più lontane, magari si fossero guadagnate le cifre di oggi! A quei tempi si pigliavano pochi soldi, quasi niente. Oggi mi hanno proposto di “fare scuola” presso il Teatro dell’Anfitrione. Comunque, arrivata alla mia età – che peraltro non mi sento né mentalmente e né fisicamente -, odio i medici e i medicinali, mangio poco, bevo niente e prendo solo sigarette e caffè. Tutto qui.
G.G. – L’importante è avere voglia di fare.
P.M. – Sai, nel mio caso, sono sempre stata “zingara”, ho sempre viaggiato e ora mi piace sto’ piccolo “buco”, starmene a casa. Mi piace cucinare, ho dei dirimpettai stupendi, sto tranquilla, non mi creo problemi e non ne ho mai creati. L’importante è non crearseli mai e avere forza dentro.
G.G. – Il suo debutto come protagonista avvenne, ancora bambina, a Catania, in modo del tutto fortuito, dovendo sostituire la protagonista, ammalata, di una compagnia “concorrente”.
P.M. – Tutto avvenne all’Arena Pacini di Catania. Sostituii la Cettina Bianchi nell’ operetta “Il paese dei campanelli”. Ero così piccola che il comico si inginocchiava per recitare con me. Che bella città Catania, c’era anche l’Arena Ganci, l’Arena Cosmo, ce ne stavano tante. Conosco anche Palermo, ma andavo sempre ad Acireale. Che bei ragazzi! Eh, La Sicilia! A Catania ho trascorso tutta la mia giovinezza: la via Etnea, le pasticcerie, le carrozze a quattro posti su cui viaggiavano le gran signore con quegli eleganti cappelli…
G.G. – Se potesse tornare indietro, rifarebbe le stesse cose, ritornerebbe al teatro e a tutti i sacrifici che quest’ultimo le ha imposto?
P.M. – Il teatro lo odio. L’ho sempre odiato. Nel teatro non resta niente, restano chiacchiere non tue. Resta invece lo scrittore, il pittore, il poeta, il musicista. Questi restano. Ma noi che restiamo?.. Chiacchiere.
G.G. – Cosa le ha fatto decidere di lasciare Napoli per trasferirsi nella capitale?
P.M. – Avevo una casa stupenda a Napoli, in via Petrarca. Tutti conoscevano Pupella e sapevano dove abitava, cosi sono iniziate ad arrivare tante telefonate anonime. Rispondevo al telefono e sono arrivata a dire: “Vuoi soldi? Ti occorre aiuto?”. Non risolvevo niente e queste telefonate si susseguivano a tutte le ore, tutte le notti. Volevo far mettere il telefono solto controllo, ma poi mi dissi: “Pupella, ma ti conviene a far cosa?”. Cosi me ne sono andata.
G.G. – Ma a spingerla verso questa decisione è stato anche ciò che accadde in occasione di una commemorazione di suo fratello Beniamino?
P.M. – È vero, fu proprio brutto, soprattutto per ciò che fu scelto di fare per la manifestazione. Purtroppo fanno cose brutte anche qui, nella capitale, come per la scorsa Festa della Donna organizzata al Teatro Brancaccio.
G.G. – Perché ha scelto Roma e, in particolare, questo quartiere?
P.M. – Ho moltissimi amici che abitano nella capitale e soprattutto in questa zona. Mi piacque molto il quartiere intorno a Piazza Valsavaranche: è una bella zona: carina, molto signorile. Mi piacque molto anche questa casa, anche se è stata completamente rifatta. Ormai saranno due anni che abito qui.
G.G. – Se dovesse indicare alcuni tra i “mali” di questa zona, quali sceglierebbe?
P.M. – Innanzitutto le strade e i marciapiedi. Mia figlia stessa si e slogata una caviglia proprio qui, sotto casa. Inoltre le strade sono proprio sporche: gli spazzini qua, non li vedo mai; qualche volta che vengono non si danno molto da fare. Comunque, bisogna considerare che anche la gente ha la sua dose di colpa, basti considerare quel che fanno lasciare sui marciapiedi dai propri cani.
G.G. – Pensa che la sua poesia “Non sono colta sono ignorante…” possa dare, ancora oggi, una chiara immagine di se stessa?
P.M. – Si, si. Eh so’ io, l’ho scritta io. Io non ci ho scuola.
Non sono colta sono ignorante,
ignorante con la penna,
ma in compenso ho il cervello:
chesto si, ‘o pozzo di’.
Occhi stanchi, malinconici,
dolci, teneri, piangenti,
espressivi, un po’ pungenti:
è ‘o mestiere che t”e ddà.
Vocca amara, ‘nzuccarata,
fatta a risa, avvelenata:
chesto vo’ l’umanità
che io servo con umiltà;
cuore aperto, coraggioso,
sempre pronto a ogni battaglia
sempre forte comme a ‘na tenaglia:
quanno strigne ‘o po’ spezzà
Mani piccole, aggrinzite,
ca nun sanno maie dì no a chi cerca.
Ma si sa che ogni tanto
‘na intuppata, bene o male l’ia piglià
Non parliamo poi dei corpo:
senza forme, senza carne,
sulo pelle, sulo ossa,
ma capille in quantità.
Sono brutta, nun so’ bella,
chesta so’: ‘na cartuscella,
na palomma cu ‘na scella.
E me chiammano: Pupella.
nota: “cartuscella” sta per foglietto malridotto, cartaccia raggrinzita, come quelle che dopo tanto tempo scopriamo di avere sul fondo di un borsone o di una tasca, quelle che riportano ricevute o pensieri dimenticati.