Nuovo reperto storico sulla famiglia, “Tre umanisti” di Giuseppe Dolei che scrisse su Santangelo, Geraci e Tanteri, figure chiave del pensiero siciliano e catanese

Durante la mia continua ricerca su altre storie di famiglia, una cugina, Marina Vigneri ha tirato fuori un’altra testimonianza-reperto storico. Si tratta dello scritto “Tre umanisti” di Giuseppe Dolei per il suo libro “Compagni di viaggio: ricordi e ritratti”, scrittore e biografo che volle raccontare e ricordare Santangelo, Geraci e Tanteri, figure chiave del pensiero siciliano, tre suoi valorosi insegnanti del liceo Spedalieri di Catania incastonati tra le figure di Sergio Lupi, Nicola Accolti, Giuseppe Gabetti, Stefan Zweig, Peter Suhrkamp, Ingeborg Bachmann.

Alcuni giorni fa i ricordi sono emersi con prepotenza per la morte di una zia, Adelaide Geraci, sorella di mia mamma Letizia.
Tra gli episodi sulla vita delle sorelle Geraci, alcune scene risalenti a oltre 70 anni fa.

Le parole di Marina mi hanno proiettato nella casa di famiglia del nonno a Catania, in via Napoli.
Immaginatevi immersi in un’atmosfera anni 50.
Per esempio, una delle tante serate con i cugini Vigneri.

Al loro arrivo tutte le donne, tante, comprese le quattro figlie di nonno, si riunivano in uno dei soggiorni, mentre lui, con indosso la sua immancabile giacca da camera, e Guglielmo Vigneri, si rinchiudevano nello studio per giocare a scacchi o con le carte siciliane e a fumare sigarette.

A conclusione della riunione, nonno cominciava a salutare tutti in cima alla doppia scala d’ingresso, gli ultimi giochi di parole, lui scherzava con la piccola Donata, figlia di Guglielmo e sorella di Marina, proprio perché da lui definita “pizzuta”, dal carattere pungente.
Oppure prendeva in giro la cognata Adelaide per il suo vizio di nascondersi l’età.
Sipari piacevoli di una vita che trascorreva serenamente tra gioie e lavoro, tutti con alcuni degli aspetti più familiari di nonno Salvatore, un professore, uno storico e filosofo amico di Croce, uomo che segnò la vita di tantissimi studenti poi professionisti, giuristi e tanto altro.

Chi erano questi tre professori fissati nella mente di Dolei? Liborio Santangelo, Salvatore Geraci e Vito Tanteri, personaggi che avevano diversi punti in comune: il desiderio di stimolare il ragionamento escludendo totalmente il puro nozionismo, stemperare il legame con i prefissati programmi scolastici organizzando i corsi degli studi in qualcosa di innovativo, fuori da qualsivoglia rigidità.

Il Liceo "Spedalieri" di Catania si trovava nell'ex Monastero dei Benedettini (XVI secolo), il secondo monastero benedettino più grande d'Europa.
L'antica struttura fu dichiarata monumento nazionale con Regio Decreto del 15 agosto 1869. Nel 2002 l'ex Monastero fu inserito nel patrimonio mondiale UNESCO come “gioiello del tardo-barocco siciliano” e nell'itinerario del “tardo-barocco siciliano del Val di Noto”. Nel 2008 la Regione Siciliana definisce “importante interesse artistico” il progetto per la ristrutturazione dello storico edificio, lavoro firmato da Giancarlo De Carlo.
Oggi l'antico complesso è sede del DISUM-Dipartimento di Scienze Umanistiche dell'Università degli Studi di Catania.

Da “Tre umanisti” di Giuseppe Dolei: estratto su Salvatore Geraci

[…] Santangelo faceva ai programmi ufficiali uno sconto accorto. Ma il loro più radicale nemico e spregiatore era Salvatore Geraci (1895-1957), filosofo coltissimo e antifascista crociano tanto convinto da restare escluso dall’insegnamento universitario prima per ragioni politiche e poi per ragioni ideologiche: alla caduta del fascismo seguì nella Facoltà di lettere di Catania l’instaurazione del neotomismo. Niente da fare per un crociano.

[ndR: nei fatti Salvatore Geraci divenne infine professore universitario, ma morì troppo presto per godersi questa fase della sua cartiera].

Geraci ci ha insegnato la filosofia come arte faticosa di interpretare la vita e i suoi problemi. Perciò i programmi ministeriali venivano all’ultimo posto, dovendosi discutere ora della censura, ora della Costituzione italiana, ora dei partiti politici, e di quant’altro capitasse all’ordine del giorno. I manuali scolastici restavano rigorosamente chiusi sui banchi e tutti dovevamo pensare a risolvere le questioni di volta in volta sottoposte alla discussione.

Geraci era un crociano ardente, ma in lui il calore delle passioni veniva purificato dalla compostezza scientifica. Era solito prendere partito nella maniera più distaccata possibile: «Debbo avvertire che nel caso di Giordano Bruno la chiesa cattolica ha promosso e avallato una delle azioni più infami contro la libertà di coscienza». Ma talvolta anche lui lasciava sussultare con forza spontanea i dettami del suo credo. Ancora oggi ricordo con divertimento l’occasione in cui si scontrò col suo allievo prediletto: un rubesto figlio della provincia catanese, che aveva precocemente divorato mezza biblioteca comunale a Militello e si era votato al marxismo con l’irruenza del neofita e la presunzione della giovinezza. Non solo il Manifesto del partito comunista, ma anche il Capitale di Carlo Marx si piccava di aver letto quel marxista in erba, che veniva educando le sue straordinarie capacità dialettiche nelle assemblee di partito o negli impegnati dibattiti alla “Casa della cultura”.

Da buon liberale, Geraci ne aveva stima e, anche sotto la maschera della condiscendenza, gli dimostrava una forte simpatia. Ma un giorno l’impertinente marxista portò al tavolo dell’interrogazione un libro dal quale, a sostegno di una su a tesi, cominciò a leggere un brano di Lenin. Il quale, incidentalmente, irrideva al parlamento e alla sua funzione nelle democrazie borghesi. Leggere questo inciso e intuire che forse anche il grande Lenin l’aveva detta grossa fu tutt’uno per quel mariuolo di allievo. Cercò dunque di glissare veloce veloce per attirare l’attenzione sul punto che veramente gli premeva, e che si affrettava a recitare con enfasi raddoppiata.
Ma il professore, che nel silenzio religioso del pensatoio collettivo era solito concentrare tutta la sua attenzione sulle parole dell’interlocutore di turno, ebbe un moto incontenibile di disappunto, se non di disprezzo, tanto per la disinvolta sentenza di Lenin, quanto per il modo astuto con cui il giovane cercava di trarsi dall’impiccio.
«E no, caro Di Giorgi», sbottò a dire interrompendo l’allievo prediletto, «questa non gliela faccio assolutamente passare. Il parlamento avrà i suoi difetti, ma liquidarlo come una sovrastruttura della società borghese la quale decide altrove i suoi affari, mentre fa finta di credere all’importanza del massimo organo rappresentativo per ingannare il popolo allocco, questa è proprio grossa».

E qui a tirare in campo, con malcelata soddisfazione, i precedenti più illustri, tratti soprattutto dalla storia inglese, nei quali l’importanza sostanziale del parlamento era fuori discussione.
Solo formalmente Geraci poneva le sue domande agli studenti di volta in volta interrogati, in realtà le gettava nell’arena della riflessione comune. Un giorno lanciò il quesito: che cosa Socrate intendesse quando si appellava al suo demone. Folgorato da un’improvvisa intuizione, mi prenotai per la risposta e dissi : «La voce della coscienza, credo».
Geraci restò piacevolmente sorpreso e, come meditando un verdetto, proferì: «Però, … nel caso del Dolei bisogna pur dire che… l’abito non fa il monaco».

Portavo ancora i pantaloni corti e Geraci, che era l’unico professore a darci del lei e a gratificare i nostri cognomi dell’articolo determinativo autoriale (la Bernardini, il Conticello), li giudicava inadeguati ai piccoli uomini che voleva fossimo diventati al liceo.

Eravamo talmente allenati alla discussione collettiva e ordinata (uno per volta, dietro prenotazione) che, avendo partecipato alla prima riunione di partito (socialista), dove gli interventi si incrociavano e ostacolavano a vicenda, due di noi si guardarono in faccia esclamando: «Ma qui sono ubriachi! Non si accorgono che in questo modo la discussione non va avanti di un centimetro?».

Avevamo sedici anni e nessuna televisione-spazzatura ha poi potuto convincerci della opportunità e della liceità dei dibattiti vocianti, dove ognuno sovrappone il suo discorso a quello dell’avversario, cercando di gridare più forte di lui.
Bisognerebbe che il moderatore oscurasse le telecamere, il rimedio più semplice per frenare questo malcostume.

Salvatore Geraci morì senza darci alcun preavviso. Improvvisamente, nella notte tra un sabato e una domenica di aprile, lo stroncò un attacco di angina pectoris.

La notizia si diffuse in città in un baleno e molti di noi ci recammo nella sua abitazione e sfilammo ordinatamente davanti alla salma di un uomo che il giorno prima ci aveva parlato di realismo cristiano e di idealismo greco, commentando un famoso libro di Lucien Laberthonnière dedicato a questo tema.

La faccia del defunto aveva un’espressione tesa, come di chi avesse lottato contro la morte con lancinante sofferenza. La fascia bianca, che passando sotto il mento era annodata sulla testa per tenergli chiusa la bocca, mi parve uno sgarbo della sorte per un uomo nell’aspetto del quale nessuno di noi aveva mai visto un solo capello fuori posto.


Giuseppe Dolei, estratto dal suo Compagni di viaggio: ricordi e ritratti”(link), Artemide, Roma 2004.
Indice dell’intero libro:
Preludio;
Piccolo mondo antico: Tre umanisti;
Per lo gran mar dell’essere: Stefan Zweigf e noi;
Un praeceptor Germaniae: Peter Suhrkamp;
L’esperienza dell’esilio: Ingeborg Bachmann;
L’entelechia critica di Sergio Lupi;
La classicità  socratica di Nicola Accolti Gil Vitale;
Il maestro goliarda: Giuseppe Gabetti.

Giuseppe Dolei, laureatosi in lettere moderne, dal 1971 è docente di Letteratura tedesca all’Università di Catania; dal 1980 è Professore ordinario della stessa materia.
Tra le sue opere scientifiche: L’arte come espiazione imperfetta (Stuttgart 1978); Invito alla lettura di Musil (Milano 1985); per la rivista “Belfagor” La Germania del giovane Mussolini (2002). Tra le opere di narrativa: Le lucertole del Mediterraneo (Roma 2009); Il giudizio (Roma 2015); Il telefono universale (Roma 2017); L’ombra che abbiamo attraversato (Roma 2018).

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