L’Etna e i suoi vini, sensazioni e ricordi che tornano vivi, viaggio fra profumi e sapori raccontando bene il vino

Da figlio dell’Etna ho sempre avuto negli occhi e nella mente due forze naturali splendide e violente, il vulcano siciliano e il mare. Dopo tanti cambi di residenza fra diverse città d’Italia fino alla successiva stabilizzazione a Roma, sia il Muncibbeḍḍu o “a muntagna” sia il mare siciliano sono sempre rimasti nel mio animo con i loro profumi, i sapori, i colori, i suoni. L’Etna e i suoi vini sono poi il perfetto racconto sensoriale di quella terra siciliana.

La storia vitivinicola di Sicilia ed etnea viene da tradizione lontana, da una consuetudine potenziata e sviluppata dal mondo greco che dall’VIII secolo a.C. ha posto le basi della viticoltura lungo i fianchi dell’Etna.
Oggi i versanti Sud, Nord, Est e Ovest del vulcano danno vita a vini differenti per condizioni climatiche spesso opposte, per le escursioni termiche sempre e comunque molto ampie, per la presenza di vigneti fra i più antichi d’Italia, a cominciare dal lato meridionale e, in parecchi casi, per l’ancora seguita coltura secondo lo schema ad alberello etneo lungo terrazze di terra nera tenute insieme da pietre laviche.

I profumi e i sapori di questo Nettare di Bacco vulcanico?

La terra nera dell’Etna lo caratterizza molto, allo stesso modo di come delinea la frutta etnea, frutti che si ritrovano proprio nei vini sia al naso che al palato. Il vino dalle uve del versante Est etneo, quello più rivolto verso il mare, ha una più presente sapidità e freschezza, caratteristica pronunciata nelle uve coltivate alle latitudini maggiori del vulcano.

Prima di tutto occorre una digressione su come si scrive e come si dovrebbe scrivere sui vini.

Nel mio lavoro giornalistico, analizzando e descrivendo anche il mondo del vino ho adottato un mio modo di raccontare. Uno stile, se posso chiamarlo così, che si pone al di fuori dei modi, delle formule e delle parole note a tutti, un criterio differente o complementare rispetto a quei vocaboli e a quelle espressioni usate di solito nel raccontare le caratteristiche dei vini. Serve più chiarezza sulle sensazioni e sulle reazioni quando si assaggia un vino.

Non mi piace raccontare quasi misticamente con formule magiche troppo comode. Devo spiegarle con qualcosa di vissuto.

Prima di scrivere mi sono sempre posto delle domande.
Cosa devo dare a chi mi legge?
Riesco a comunicare con chiarezza, a consegnare le mie esperienze?

Ho ammirato quanto ha scritto *Daniele Cernilli per la testata che dirige, Doctor Wine, sull’efficacia delle descrizioni e dei racconti sui vini:
“[…] una delle cose fondamentali per comunicare tutto ciò che è relativo al mondo del vino, proprio come diceva don Lorenzo Milani, è quello di spiegare qualunque termine si usi in un discorso. È quasi un dovere morale, un rispetto nei confronti di chi perde tempo ad ascoltarci, dedicando a questo una parte, anche minimale, della sua esistenza. Perché, se qualcuno ci ascolta, qualcosa che gli servirà per capire ci deve pur essere, e la dimostrazione di quanto siamo bravi a descrivere un vino è in funzione di quello, e non del narcisismo di un degustatore”.
“Poi bisogna essere precisi. I profumi di un vino non possono essere il delirio di un assaggiatore, ma devono definire ciò che nel vino c’è effettivamente. Possiamo non chiamarli terpeni ma aromi floreali, non tioli ma profumi di frutta esotica e di pietra focaia, non lattoni ma sentori di mandorla fresca, e così via. Ma quando abbiamo definito con un riconoscimento olfattivo una famiglia di elementi presenti in quel determinato vino, questo è più che sufficiente […]”.
*Daniele Cernilli, critico enologico di fama internazionale, direttore responsabile di DoctorWine nonché direttore-curatore della Guida Essenziale ai Vini d'Italia by DoctorWine.

L’Etna e i suoi vini, il ritorno alla mia infanzia e l’uso delle parole più descrittive. Racconti di esperienze

Quando eravamo bambini io e i miei cugini passavamo nella campagna etnea una parte del lungo periodo estivo siciliano, di solito dopo il mare, dopo almeno due mesi a buttarci fra specchi d’acqua cobalto e verde smeraldo fra Acireale, Acitrezza, Aci Castello, Capo Mulini e anche la Plaia, lunga spiaggia sabbiosa a Sud di Catania, negli anni più remoti.
Trascorrevamo il nostro tempo dove le nostre famiglie si radunavano, nelle campagne di Ragalna, ma non solo. Eravamo quasi sempre in provincia di Catania. C’era anche Pedara, Nicolosi, Viagrande e molti altri luoghi di delizie, spesso sullo stesso versante del vulcano.

Delizie di sapori e profumi radicati nella mente, micro viaggio di gusto siciliano
La "pizza siciliana", chiusa e fritta, nella versione classica con dentro Tuma e alici (Tuma: formaggio bianco fresco e filante per il calore, da latte ovino, ma anche in varianti insieme a quello vaccino), poi gli arancini (classici al ragù, tanto ragù con pezzetti di carne o bianco al burro), Poi la parte dolce, il "pezzo duro" o "Scumuni" (Schiumone) tipico semifreddo catanese servito in tutta la provincia, a spicchi nel piatto (tagliato da una forma a zuccotto), proposto anche nella versione "Misto Umberto" dedicato al Re di Maggio, Umberto II, con caratteristiche simboliche nei colori: in una fetta il gelato alla gianduia che rappresenta la terra dell’Italia, poi il gelato al pistacchio e le ciliegie candite col gelato al torrone; queste tra parti stanno per gli altrettanti colori della bandiera d'Italia/del Regno d’Italia; al nucleo centrale che è il cuore di tutto, il Pan di Spagna colore giallo oro che rappresenta la Corona.
Tutto questo lo racconto per iniziare a intuire i sapori, quelli che che chiunque può trovare ancora in Sicilia Orientale, in provincia di Catania, dalle cittadine sul mare fino a quelle sull'Etna.

Immaginatevi noi, gruppetto di bambini, di cugini tanti anni fa a inseguirci sotto la villa, fra i campi, le vigne profumate e gli ulivi o fra gli alberi di fichi e i salici correndo in quella terra nera e polverosa.

Dove passavamo noi c’era una nuvoletta nera, facile individuarci pure a distanza. A pranzo o la sera verso cena eravamo noi stessi neri o grigiastri di terra.

Il profumo della terra vulcanica, come descriverlo?

Quel terriccio è diverso da tutti gli altri, più scabroso del normale, caderci sopra era ed è come grattarsi mani e ginocchia su una pietra pomice con micro punte. Ma era anche polverosa, anche della consistenza del talco.

Aveva e ha un suo profumo.

Immaginate di prendere una pietra bollente scaldata dal violento sole d’agosto e di bagnarla all’improvviso.
Vi è mai capitato di farlo o di trovarvi dopo una pioggia ferragostana intensa, ma breve?

Che odore emana quella pietra?

Rammentatelo e vi dico che in quell’istante vi siete incontrati con la manifestazione fisico-sensoriale del termine mineralità” che appartiene al mondo dei vini. Non è una trasposizione automatica di questo sentore in un vino perché entrano in gioco altri fattori, ma ci siamo quasi.
L’acqua che evapora per il grande calore della pietra si porta appresso l’odore della stessa pietra e voi lo avvertite.
Sì, un sasso ha un suo odore.
Se doveste leccare quella pietra, ne avreste una fedele approssimazione di gusto.

La terra nera dell’Etna ha sue sfumature, originali per la sua natura vulcanica, dovute ai minerali contenuti. Entra in gioco anche la sua porosità che consente all’acqua e alle radici di entrare nel profondo.

Adesso vi chiedo di ricordare-annusare un’altra cosa, il carbone, sia quello naturalmente adagiato, che il carbone bagnato, ma anche quello che sta cambiando dal nero al rosso e al bianco mentre brucia dall’interno.
È un odore particolare, diverso a seconda degli stati del carbone e dalla legna di provenienza.

Questa nota che stimola i sensi, pensatelo in sfumature molto lievi escludendo il sentore di bruciato: si unisce all’odore di pietra e di terra dell’Etna per comporre una frazione di quel bouquet di profumi e sapori dei vini dell’Etna.

Poi la nota acida-fresca nei vini etnei. Come spiegarla?

Troppo facile immaginare gli agrumi, i limoni, le arance, i mandarini. Definita “fresca” perché stimola la salivazione e perché dà l’impressione di qualcosa di freddamente stimolante.

Sull’Etna questo sentore acido acquista complessità tutte sue che vanno al di là delle reazioni chimiche al palato.

Chiudete gli occhi e pensate a una zuppiera colma di fragole. Pensate al momento in cui ci versate sopra il succo di limone.
Non si tratta solo del profumo del succo dal frutto giallo, ma della combinazione di questo con le fragole quando il liquido le tocca, quando si combina con loro.
Il sentore di limone acquista dolcezza, meno aspro al naso, perché sì, questa nota acida di solito relegata alla sola sollecitazione del palato ha una sua prima e lieve presenza al naso, meno chimica, più sensoriale.
Sorseggiando i vini dell’Etna la nota acida siculovulcanica la ritrovate poi anche al gusto e dà grande vivacità la nettare di Bacco etneo.

Le solite diciture nella descrizione dei vini, come “sentore di frutti rossi” non devono far pensare automaticamente o solo a ciliegie e similari.
Sull’Etna il vino si appropria degli aromi e dei sapori dei frutti locali anche perché hanno in comune quella terra nera e quell’aria.

Girando fra le campagne etnee è sempre stato dolcissimo fermarsi fra gli alberi di fichi sia verdi che a buccia nera. Coglierne uno era l’anticamera del paradiso.
Ricordo anche quando eravamo in gita fra le campagne piene di mandorli, di rovi colmi di more nere e bianche o gli alberi di gelso carichi di frutti.

Le ho ben vive in testa quelle sensazioni così profumate, di gusto date da fichi, dalle more, dai gelsi. Le rinverdisco ogni anno in maniera diversa, per esempio grazie alle granite di gelsi neri.

Mettete insieme questi frutti e avrete la nota di dolcezza che è possibile trovare nei vini dell’Etna, stemperata, è vero, non predominante, altrimenti sarebbe solo sciroppo e non un vino.

È la forza a prevalere nei vini etnei. Questa viene dall’uva che l’ha assorbita dalla terra lavica.
Una forza che non disequilibra con la nota minerale appena raccontata, che non colpisce violentemente la bocca, ma è un’ottima alchimista che mette insieme profumi e sapori combinandoli in qualcosa di unico.
Da anni questa caratteristica sta costruendo il successo delle cantine etnee.

L’Etna Doc (link), costituita nel 1968, è la seconda in Sicilia e tra le prime in Italia. È cresciuta in produzione, ancora di più nella qualità, fra gli anni 80 e 90 del 1900. È declinata in Rosso (non meno dell’80% di vitigno Nerello Mascalese) e Rosso Riserva, Bianco (almeno 60% di vitigno Carricante) e Bianco Superiore, poi Rosato e Spumante. Ultimo dato di produzione 6,2 milioni di bottiglie e 172 fra produttori, imbottigliatori.

I vini sono fortemente caratterizzati proprio dalle uve tipiche dell’area come il Nerello Mascalese originario della piana di Mascali e la Minnella che nelle sue origini rintracciate vede il territorio di Messina. Oppure il Nerello Cappuccio non originario della zona, ma che qui ha trovato casa perfetta. E poi anche le cultivar Carricante e Catarratto.

Il primo, il Nerello Mascalese è quello che ha più carattere, è il più deciso, molto aromatico, uno dei maggiori esponenti, se non il primo, della mineralità etnea. Sui sentori al naso e al gusto, oltre a quanto vi ho già scritto, mi affido alla vostra esperienza. Assaggiatelo. La descrizione di un vino poggia inevitabilmente su quanto sollecita dai vostri ricordi, quindi va al di là di quanto a monte vi possa essere indicato con note di frutti rossi, vena minerale, spezie e quant’altro…

Il Nerello Cappuccio è più gentile, ha meno tannini, quindi minor presenza di quelle sostanze che inibiscono con naturalezza la salivazione, l’opposto di quelle “acide“, sostanze che danno quel senso di freschezza bevendo, gli acidi organici.

Del Carricante si può dire che è un vitigno molto produttivo anche se negli anni la scelta è stata quella di prediligere la qualità rispetto alla quantità. Resiste molto bene alle quote più elevate e per il suo profumo immaginate fiori come l’Iris, ginestra o i garofani bianchi, ne avrete una descrizione fedele. La cosiddetta mineralità etnea è qui molto presente e la dolcezza nei frutti somiglia più alle sensazioni che può lasciare la polpa di una pesca o di un’albicocca.

La Minnella, altro vigneto autoctono come il Mascalese, nelle varianti Rossa e Bianca. Il suo vino è dolcemente profumato di fiori, unito solitamente al 10% con Mascalese, Carricante e Cappuccio donando più morbidezza al tutto, spicca per la sua freschezza in bocca (quindi nota acida).

Il Catarratto è invece un vitigno originario del versante occidentale della Sicilia, quindi Trapani e Valle del Belìce, però sull’Etna ha espresso caratteri in più grazie al terreno vulcanico e alla condizioni climatiche particolari non presenti nelle valli trapanesi. In abbinamento ad altri vitigni per particolari blend dell’Etna DOC bianco dà una spiccata nota acida di agrumi e non solo, quella che ho già descritto nell’articolo.

Adesso continuerò in questa mia esplorazione dei vini Etna DOC, tante etichette ancora da conoscere, rossi e bianchi da assaggiare per comprendere quanti corrispondono all’idea di Sicilia Etnea, quanti la rappresentano al meglio. Prima di avviarmi leggerò anche quanto avranno scritto dei colleghi e degli assaggiatori nelle loro esplorazioni, come nella Guida ai Vini dell’Etna 2025 di https://www.cronachedigusto.it/.
Mi confronterò anche con https://www.doctorwine.wine/, naturale punto di riferimento per i vini con la sua Guida essenziale ai vini d’Italia, senza escludere le classifiche e le analisi del Gambero Rosso con la sua guida ai Vini d’Italia 2025.

Concorderemo sulle nostre impressioni? Avremo differenze di giudizio?
Lo saprò solo vivendo…
😄

Intanto divertitevi e auguro a tutti un buon vino. Etneo soprattutto

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