La mia Sicilia: rieccomi!

Quella cioccolata appena sfumata di cannella, solo una “cusuzza” o “cosuzza” di quell’aroma, tanto perché la si noti appena, con eleganza. In questo modo la granita si scioglie in bocca con grandi note di piacere. Ancora di più se mescolata a quella di mandorle. Io chiedo sempre una granita di cioccolata macchiata mandorla. Ma un altro mio grande desiderio è quella ai gelsi neri. E il trionfo della granita di limone che accomuna oriente e occidente di Trinacria pur con le differenze di consistenza? La Sicilia è quasi come un continente, con grandi differenze che la caratterizzano e, al tempo stesso, ne costituiscono l’identità unitaria.

Goduria pura, lo ripeto, ancora più se ci si riempie gli occhi con la vista del mare. Ecco, questo per me e per tantissimi anni, è stato il rito della prima colazione ad Aci Castello, piccolo centro sulla scogliera lavica che la unisce a Catania da una parte e ad Aci Trezza e alla costa di Acireale dall’altra: granita e visione da sogno.

Piacere del palato, piacere degli occhi, piacere dell’anima perché a tutto questo si unisce anche il profumo della Brioscia col tuppo (brioche con cappelletto in cima) da staccare a pezzi e da gustare con la granita. Tutto è immerso in un concerto sonoro fatto della parlata siciliana tra dialetto antico e cadenza sicula in frase italiane, poi lo sciabordio del mare contro gli scogli e la base basaltica del castello, rumore marino che ha sue cadenze differenti, da quando il mare è “rabbio” o “rabbiu“, oppure quando è discreto, quasi silente, rilassato, con la superficie dell’acqua praticamente piatta, tanto da essere del tutto trasparente. Il fondale raggiunto dalla luce del sole restituisce colori che vanno dallo smeraldo al turchese.

Questa è Sicilia. Quella che ho sempre ricordato, vissuto nelle mie diverse decine di anni. E poi in Sicilia si mangia a colori. Provate a osservare una tavola sicula imbandita: c’è l’intero arcobaleno, saturo di colori e forme.

Un legame forte e da bambino è stato anche doloroso. A tratti.

Non per colpa di questa terra.

Per vicende lavorative di mio padre che era operativo in Banca Nazionale del Lavoro, facemmo una strana vita per diversi anni.

Immaginatevi di trasferirvi per alcuni mesi in una città come Livorno, Parma, Savona e poi tornare a Catania.

Il mio destino era iniziare l’anno scolastico in una di queste e poi finirlo a Catania.

La mia prima scuola Catanese era l’Istituto Maria Ausiliatrice, antica istituzione ottocentesca (1872 – Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice) su via Caronda, lì dove mia madre e le sue sorelle avevano iniziato dall’asilo in poi. A reggere il tutto era ed è un nutrito gruppo di suore. Ricordo corridoi con antica carta da parati e non particolarmente illuminati al livello della chiesa interna. Antiche porte, un grande cortile dove in una nicchia, lungo uno dei due muri più estesi, si trovava una grande Madonna che schiacciava la testa di un grande serpente con la lingua biforcuta spinta fuori, oltre le zanne velenose, dal suo ultimo fiato. A me quattrenne sembrava grande. Sono sicuro che se lo vedessi oggi mi presenterebbe tutto in scala ben più ridotta.

L’asilo e i primi due anni delle elementari li passai lì.

Poi l’Istituto San Filippo Neri, sempre a Catania, struttura moderna, retta da padri salesiani, grande cortile e campi gioco-sportivi, lezioni di inglese. Qui terza e quarta elementare.

Il problema è che in queste scuole gli anni scolastici li finivo. Solo in un caso riuscii a iniziare, ma non ricordo in quale classe e anno.

In quelle altre città d’Italia dove ci trasferivamo, lì iniziavo gli studi. Accadeva ogni anno, però non facevo in tempo a farmi degli amici e via, di nuovo a Catania. Ero continuamente strappato e sballottato via.

Gli istituti scolastici che frequentavo non erano parificati, quindi cosa accadeva? Dovendo per esempio passare dalla seconda alla terza elementare, mi toccava fare un esame. Ogni anno fu così.

Vero pure che a Catania trovavo i vecchi amici, ma era una cosa effimera, da vivere quasi in fretta prima del successivo nonché breve trasferimento.

Lo strappo dalla Sicilia era ogni volta doloroso, c’era da ricominciare tutto avendo pure la consapevolezza che era uno sforzo investito per un breve periodo. Perché poi si tornava indietro.

Allora perché andarsene? Me lo ripetevo continuamente.

Quindi, cugini, amici catanesi, tutto il mondo dei giochi, dei sapori, dei profumi, di quella luce, doveva essere messo nel congelatore per diversi mesi.

Non fu affatto semplice anche perché questa sorta di trafila iniziò che avevo sei anni e facevo la seconda elementare.

Diversi anni dopo, ci stabilimmo definitivamente a Roma, ma la cosa mi suscitò sentimenti contrastanti. Da una parte ero insoddisfatto, ma dall’altra ero molto incuriosito: era pur sempre Roma, la Capitale, magnifica con i suoi resti archeologici della Caput Mundi, poi Capitale della Cristianità con San Pietro, i Musei vaticani, i palazzi storici, Castel Sant’Angelo. Un mondo enorme da scoprire.

Però, da sempre, ho continuato a sentirmi veramente a casa in Sicilia, senza distinzione tra Catania o Palermo o ancora Caltagirone, dove avevo i tre nuclei dei miei parenti.

E poi avevo e ho una continua fame di mare, non importava e non importa che mi ci tuffi in continuazione. È una fame che a Roma non si può soddisfare senza dover fare una trentina di chilometri solo andata. E poi è il mare di Ostia…

Considerate un fattore importante. In una Catania, città dove sono nato e che prendo come esempio (stessa cosa a Palermo), a meno di non essere circondati da alti palazzi, basta che ti volti un attimo e vedi il luccichio del mare da qualche angolo: lui è sempre presente, da lontano, da vicino, ti si apre davanti nella sua vastità, oppure fa semplicemente capolino da qualche parte del tuo panorama visivo. C’è e basta.

Questa “compagnia” mi manca ed è anche compagnia olfattiva e acustica.

Salendo sull’Etna diventa inevitabile ammirare l’abbraccio marino al vulcano. La terra scura vulcanica e l’azzurro blu del mare, insieme e in lotta plurimillenaria.

In tutto ciò sto per “immergermi”, di nuovo.

Dopo gli anni più brutti del Covid. In questo agosto 2022 sto tornando proprio lì, per un po’ di giorni. Dopo tanto tempo, questa volta in solitaria, ma incontrerò antiche amicizie.

Mi preparo per la familiare spiaggia nella scogliera di Aci Castello dove poter fare anche immersioni in apnea indossando maschera e pinne, cosa che amo: molti non vedono di buon occhio le pinne, ma io non devo fare gare di resistenza, devo scendere rapidamente per osservare più a lungo e tranquillamente i fondali.

Osservo pesci di varie forme e colori, stelle marine nere, rosse, arancioni e, qualche volta, anche delle murene o degli “scecchi di mare” rosso rubino o marroni (la lepre marina o Aplysia depilans) che viaggiano nell’acqua ondeggiando-svolazzando con le loro propaggini come fossero veli, quasi come ballerine aggraziate nonostante la loro forma rotondetta.

E ancora i ricci, i polpi, nuvole di pesci colorati come l’arcobaleno (mi diverto a nuotarci in mezzo e questi sterminati banchi si separano guizzando al mio passaggio). La mappa della scogliera sottomarina e la sua popolazione li conosco come i palmi delle mie mani.

Mi riapproprierò per alcuni giorni delle tipicità locali, degli arancini, della cipolline, di piatti di pasta ben condita (sopra melanzane fritte e ricotta salata grattugiata ad accompagnare la salsa di pomodoro), il pesce spada alla griglia. Poi le torte Savoia (vero trionfo del cioccolato), le torte Cassata, il gelo di mellone rosso (anguria) più tipico nel palermitano. Un po’ meno i cannoli alla ricotta perché sono dolci più invernali che estivi.

I fichi d’india? Ficu d’Innia o ficurinnia in Siciliano, con polpa succosa di colore porpora cardinalizia/vescovile denominata “Sanguigna” o con l’interno bianco/verde pallidissimo per la tipologia “Muscarella” o “Sciannarina” o giallo della “Sulfarina” o “Nostrale“.

Forse mi sarà impossibile riuscire a gustare i “Bastarduna” o “Scuzzulati“che sono fichi d’india tardivi – da seconda fioritura, dopo l’eliminazione dei primi e più piccoli frutti dalla pianta – capaci di maturare anche fino a dicembre: sono di un gusto, di un profumo e di una dolcezza incomparabili. L’area etnea, grazie al suolo vulcanico, ne fa di meravigliosi e i centri più vocati sono Adrano, Belpasso, Biancavilla, Bronte, Camporotondo, Paternò, Ragalna, Santa Maria di Licodia.

Devo dire che sono arrivato alla mia età senza mai provare il gusto delle pale di fico d’india, anche queste possono essere servite al piatto. Cosa che non sapevo, oltre che essere mangiate fresche, sono servite sott’aceto, in salamoia, candite, in confettura e pure in una sorta di cotoletta, fritte in padella dopo averle sbucciate e passate nell’uovo, nella farina e nel pangrattato.

Incredibile.

Che questa estate 2022 possa essere il mio debutto con una pala di ficurinnia al piatto? Vedrò.

E poi c’è altro per deliziare il palato e rinfrescare il corpo. Si può cominciare di pomeriggio ma, ancora di più, la sera tardi, ai chioschi (o cioschi in Siciliano) di alcuni angoli e piazze di Catania, l’orgia di bevande fresche-ghiacciate, ma per me tra queste un grande classico: “Seltz, limone e sale“. Vi mettono davanti un bicchiere riempito di seltz, poi dentro il succo spremuto da quattro mezzi limoni verdi (a vederlo fare sono rapidissimi con speciali spremiagrumi a mano, a manovella), una punta di sale marino. Tutto viene subito rigirato con un cucchiaino a manico lungo fino a fare schiumare la bevanda. Credetemi, è una goduria dissetante. Se avete cenato in maniera corposa, vi farà pure digerire anche i sassi.

Ma non c’è solo questo. Sempre a quei chioschi esplode l’alchimia alla ricerca del metodo migliore per dissetarsi con gusto.

Che vuol dire? Ecco alcuni esempi.

Oltre al “Seltz, limone e sale”, ci sono l’antico e tradizionale miscuglio dello “Speciale” con acqua, qualche goccia d’anice e limone spremuto, che si trasforma in “Completo” aggiungendo un po’ di orzata. Il “Tamarindo al limone e bicarbonato” coniuga alta capacità digestiva a un contrasto che si scatena in bocca tra il dolce e l’amaro, il sentore aspro e l’inevitabile sapidità. Il “Mandarino al limone” lo dice già il nome: ennesima mistura dissetante con limone spremuto che per gli amanti può essere raddoppiato in dose, sciroppo di mandarino o mandarinetto verde. Se al posto del mandarino si usa lo sciroppo al limone, si trasforma in “Limone al Limone” sempre insieme a sale e seltz.

Il mio programma Siciliano?

Mi sono messo in testa di andare a rivedere la Villa Romana del Casale a Piazza Armerina che non visito da circa vent’anni. Non l’ho ammirata con la sua nuova copertura protettiva. Prima la sovrastruttura che richiamava la parte superiore della domus di campagna, era in plexiglass e inevitabilmente trasformava l’ambiente interno in un forno solare con vari malori dei turisti: bella a vedersi, ma molto poco pratica d’estate. Oltretutto l’area archeologica è stata risistemata.

Poi Ragusa Ibla e Siracusa, città che ho nel cuore.

Per il resto vedrò.

Non mi piace programmare troppo. Preferisco la scelta d’istinto. Nell’organizzare i tempi di svago ed esplorazione sono molto siciliano. Programmare va bene, ma solo come discreto contorno. Il resto deve andare da sé, dove l’occhio cade e dove i profumi e la mente mi spingono.

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6 commenti Aggiungi il tuo

  1. Bergontieleonora ha detto:

    Buone vacanze Giuseppe, 😀! Oddio, che fame a leggere granita cioccolata e mandorle, 😋😋😋… dev’essere paradisiaca, 😋😋😋!

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    1. Giuseppe Grifeo ha detto:

      È già magica di suo, ma gustarla in quel contesto la trasforma in una splendida terapia per l’anima

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      1. Bergontieleonora ha detto:

        Bei paesaggi e buon cibo… un connubio assolutamente perfetto, 🤩.

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        1. Giuseppe Grifeo ha detto:

          È casa e l’esplorazione di luoghi prosegue. Io stesso ho tanto da vedere ancora

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    2. Giuseppe Grifeo ha detto:

      Buone vacanze anche a te!

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