“La Signora dei sogni”, distillato di vita e d’amore: il racconto che estrae l’uomo nudo dalla corazza di celebre figura… e spicca la donna al suo fianco

«È stata una storia molto lunga. Quando ho sposato mio marito, ho creduto di sposare la poesia».

Ancora io sento su la mia bocca fremer le tue labbra voraci…

Oh se il mio lungo dolor ti tocca, vieni a’ miei baci!

«Avrei fatto meglio a comprare, per tre franchi e cinquanta, ogni volume di versi che ha pubblicato».
(Maria Hardouin)

Con queste potenti e amare parole è calato il sipario su “La Signora dei Sogni“, andata in scena il 26 settembre a Roma, Teatro di Palazzo Altemps, opera interpretata da Nika Perrone, testo di Lorenzo De Liberato, regia di Marco Fasciana, adattamento Fasciana/Perrone, musiche di Alessandro Viale. Spettacolo scaturito da Aedon per l’evento Filo Rosso.

Chi è apparso davanti a me sulle tavole di quel palco? Chi mi parlava attraverso l’interprete?

È stata l’evocazione di una coppia dall’esistenza travagliata, caratterizzata da problemi e contrasti come avviene per molte coppie di questi anni. Una vita fatta di scelte come quelle che accomunano tante altre unioni oggi nel Mondo.

La Signora dei sogni” lega come in un “rosario-racconto di vita” le tante lettere che le furono inviate dal compagno poi marito. Un’esistenza messa a nudo. In ombra tutto il resto. Fuori dalla porta il mondo che premeva.

Chi è la Signora dei sogni? Chi sono i due personaggi che si alternano in scena, evocati dall’interprete?

Da una parte il Vate, Gabriele D’Annunzio e dall’altra la moglie, Maria Hardouin duchessa di Gallese, figlia del duca Jules Hardouin di Gallese nonché marchese della Rocchette e di Natalia Lezzani. I due si misero insieme nel 1883, già separati nel 1890. La Hardouin, unica moglie di D’Annunzio, guida nei fatti il racconto.

Dalle parole di Nika Perrone sono emerse le menti, i cuori e, in qualche modo, i corpi di questi due personaggi, pur essendo Nika da sola, lì su un palco nero.

L’attrice si è liberata dalla voragine scura del non conosciuto.

Si è spogliata dal nero imperante di quell’inchiostro tracciato sulle lettere dannunziane.

Lo ha fatto grazie alle luci, ma non quelle fisiche. Luci accese dalla potenza del racconto vivo di due individui, dalle parole di Maria presente lì sul palco in Nika.

Nella rappresentazione l’attrice trascina, sposa la modernità, o meglio, la non databilità della vicenda (attualissima nel suo vissuto e nel concatenarsi) portandosi in scena con abiti a noi contemporanei. Un gioco appositamente scelto con il regista Marco Fasciana.

Il testo su cui è basata la narrazione teatrale è tratto da “La miglior parte della mia anima” lettere di Gabriele D’Annunzio alla moglie.

L’attrice Nika Perrone – foto Marco Crispano/Giuseppe Grifeo

Nika Perrone, l’approccio ai personaggi e l’esperienza dell’artista dopo questo doppio “incontro”. La figura di Maria Hardouin

Nika Perrone – foto Marco Crispano

È proprio la stessa Nika a raccontare e a raccontarsi dopo lo studio, la costruzione e l’interpretazione de “La Signora dei sogni”, una visione guidata dalla conoscenza di queste anime del passato, ma così attuali nelle loro scelte.

Il lavoro di adattamento del testo teatrale è stato complesso e compiuto all’unisono con Marco Fasciana.

«Come ogni testo ben scritto (la vita), lo studio di un personaggio (un uomo) lo si porta avanti attraverso le battute degli altri personaggi (la gente, che racconta).  Attraverso la storia di Maria Hardouin che ho potuto studiare attraverso l’unico libro sulla sua vita intitolato “Il peccato di maggio” di Giuliana Vittoria Fantuz, viene fuori un D’Annunzio anche debole, anche pieno di rimpianti, anche più riprovevole di quanto si possa immaginare. Ma nello spettacolo il punto di fuga si sposta: la vera protagonista è Maria, riscattata, dopo anni di storiografia pressapochista, dalla sua immagine di “donna-vittima”».

Destino, fortuna, sfortuna o semplici e umanissime scelte? Cosa ha plasmato la vita di Maria Hardouin?

«Maria ha scelto di vivere il suo idillio d’amore ispirandosi a quelli dei romanzi in cui viveva immersa; ha deciso di non divorziare; ha deciso di ripagare i debiti di un uomo che si concedeva più di quel che poteva permettersi. Condivisibile o meno, la sua condotta – come quella di ogni uomo – è stata frutto di una scelta. Noi siamo sempre frutto di una scelta».

D’Annunzio è figura ingombrante, se così è possibile affermare, per la particolare vita personale e artistica che lo portò a spiccare e a indossare la sua armatura da uomo noto e celebre. Maria Hardouin invece cosa era?

«D’Annunzio ha avuto accanto una donna estremamente moderna che anticipava i nostri tempi con la sua concezione allargata di famiglia, priva di formalismi, ricca di fierezza e spontaneità, premurosa, ribelle, generosa, coraggiosa, di un coraggio militaresco ereditato dal padre. Non ci si può soffermare sui primi anni del loro matrimonio: questa donna ha avuto la capacità di affrontare il suo dolore, conoscerlo, asciugarsi le lacrime dagli occhi e vedere limpidamente l’uomo che non poteva legarsi accanto. La sua non è stata una vita di rancori, ma di trasformazioni, di mutazioni del sentimento, di accettazione. Di scelte, appunto».

La Signora dei sogni… due vite in sette anni di lettere

Due esistenze sorprendenti, in continua attrazione e repulsione, passione, amore, allontanamento, il racconto dei figli, la tenerezza e la disperazione, la solitudine.

Nell’opera teatrale sparisce il D’annunzio Vate, svanisce il grande artista, il poeta, viene eclissato quello che sarebbe stato l’esponente del Decadentismo, colui che ancora dopo sarebbe diventato l’uomo-simbolo della Prima Guerra Mondiale e poi il Principe di Montenevoso.

Resta l’uomo. Nudo nelle sue emozioni anche attraverso le parole rivolte alla sua Maria e in quelle da lei stessa pronunciate.

Accenni da “La Signora dei sogni”

“Perdonami tutto, tutto il male che ti ho fatto amandoti, perdonami!
Stamani tu parlavi fermamente, eri d’una bellezza strana. E ridevi, parlavi di te, della tua rovina, della tua fine, così, ridendo, con uno scoppiettio brillante di parole.
La mia vita è tua, la mia giovinezza è tua, a me è una suprema gioia finire per te, nel tuo grande amore.
Io mi uccido, perdonami, Maria, anche quest’ultimo dolore. Io mi uccido là su quel divano ove ti ho avuta tutta tra le braccia, ove noi abbiamo sentito il fremito della giovinezza correrci per i corpi avviticchiati.
Ti lascio quei due pezzi di stoffa su cui io mi ucciderò, ti saranno sacri.
Addio, brucerò ora tutte le tue lettere, prima di morire. Tu conservi le mie? C’è dentro una parte di me.
Ma quante altre cose io non ho saputo, non ho potuto dirti. Forse un momento prima di uccidermi, ti riscriverò.
Ti bacio la bocca, quando avrai questa mia non fare strepito: non vi sarà più tempo a nulla, io sarò freddo. Addio”.

D’Annunzio – Roma, 8 giugno 1883

«Qualche settima dopo siamo fuggiti – racconta Maria Hardouin nel racconto teatrale – ma non siamo arrivati tanto lontano; volevamo andare a Venezia, ma a Firenze siamo stati fermati dal prefetto Corte e l’onorevole Colaianni.
Mi sono sempre chiesta come facessero a sapere che stavamo per arrivare a Firenze, proprio in quel momento.
Una fuga orchestrata male o il più grande capolavoro.
Ci aspettavano come due che si fossero dati appuntamento.
Ci aspettavano per riportarci a Roma. Eravamo giovani, amanti non autorizzati».

Nel testo è già evidente il sospetto, la non comprensibilità della situazione, la fuga stranamente interrotta e mancata. Le parole di Maria Hardouin non dicono tutto, ma sono chiare. Ed ecco la lettera mandata da Gabriele D’Annunzio quando, girando per Roma, colse pettegolezzi e quesiti, come se la città che conta conoscesse bene i particolari della loro fuga, del loro tentativo di viaggio da complici, da innamorati. Un desiderio segreto quasi realizzato… che si rivelò non essere segreto.

“Che facciamo dunque Maria? La voce corre. Qui non c’è da ondeggiare, bisogna tutto prevedere, prendere una decisione.
Io ti ripeto quello che ti scriveva jeri, io son qui pronto per te, tutto per te Maria, io sono sempre in qualunque caso tuo, tuo, tuo.
Il Duca manterrà la parola se verrà a sapere e ti scaccerà.
Vieni a me se ti cacciano!
Vieni a me sola sola, così, senza nulla”.

D’Annunzio – Roma, 30 giugno 1883

Poi, il momento della nascita del primo figlio, Mario. Era gennaio 1884. Prima della sua nascita il bimbo era già soprannominato “L’irreparabile” perché nato fuori dal matrimonio. La società lo bollava come frutto del peccato (ancora nel nostro 2021 molti ragionano nello stesso modo).

L’amore paterno descrive splendidamente quel bambino. In una sua lettera D’annunzio narra una parte di sé attraverso il figlio, una sorta di affettuoso senso di continuità. Una visione familiare, intima, molto personale.

“Mario manda a te questi cinque fiori di gelsomino; ha finito or ora di fare i capricci. Voleva per forza mangiare i maccheroni nel piatto grande, nel piatto per tutti. Poi voleva le cerasette nel fritto, e voleva bere tutta la bottiglia del vino.
Detta legge come un despota e dispensa il titolo di imbecille e di mascalzone in grande abbondanza.
Stamani ho assistito al suo bagno nella mastella.
Sono rimasto sorpreso, perché non credevo che egli avesse preso con l’acqua fredda tanta familiarità.
Cerca di imitare me nel farsi il bagno, si versa l’acqua sulle spalle e sulla testa, da sé, dicendo: – così fa papà.- E guai a chi lo tocca!
È curiosissimo.
S’affatica in tutti i modi ad insaponarsi e a strofinarsi. Una di queste mattine si mangerà il sapone”.

D’Annunzio – Pescara, 20 giugno 1884

Dopo verrà il secondo figlio, Gabriellino (Gabriele Maria). A seguire il terzo, Ugo Veniero che Maria darà alla luce in assenza di Gabriele D’Annunzio.

“Cara Maria, ho avuto stamane il telegramma inaspettatamente. Spero tu stia bene ora e che tu non abbia troppo sofferto.
Com’è il bambino? Bello? Brutto?
Com’ha gli occhi? I capelli?
Egli farà l’uomo di mare – e condurrà alla vittoria le navi della patria, forte come un Barbarigo o un Morosini. E il nome? Ci hai pensato?
Massimo, Daniele, Giuliano, Leone, Ippolito, Veniero… Venier D’Annunzio mi piacerebbe: nome di buon augurio per un ammiraglio in fieri.
Ti abbraccio, Maria, voglimi bene”.

D’Annunzio – Settembre 1887

Nella rappresentazione teatrale è la stessa Maria a commentare questa lettera grazie all’interpretazione di Nika Perrino. Un misto di tenerezza, ma anche amarezza per altri fatti che ne assediavano la vita, un’esistenza in quel momento solitaria e che si avviava al declino nel percorso matrimoniale:

«Quanta tenerezza in una frase sola: “voglimi bene“. Al di là del nome…
A me piaceva Ugo, a lui Veniero. Compromesso? Ugo Veniero e non se ne parlò più, semplicemente.
Bisognava instaurare il regime del compromesso: essere lontani, avere i creditori sulla porta, non parlare più con mio padre, chiedere continuamente prestiti, sopportare le bizzarrie, gli sbalzi d’umore e le debolezze.
E allo stesso tempo volersi bene.
Provai del fastidio… e a volte imbarazzo. Ma l’imbarazzo, si sa, all’epoca era una prerogativa femminile, come l’onore maschile».

A questo punto non continuo a svelare nulla della rappresentazione teatrale che si dipana in un’alternanza di dolcezza, tristezza, rabbia, complicità, dedizione, amore, solitudine di quel legame vissuto tra Gabriele D’annunzio e Maria Hardouin.

In una prossima proposizione dell’opera avrete aver modo di godere appieno di ogni istante senza che io anticipi altro.

Vi stupirete grazie alle parole rese emozione, alle mutazioni espressive, agli occhi lucenti di Nika Perrone.

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